Pubblichiamo un estratto del saggio di Luigi Iannone, scrittore e insigne studioso di Ernst Junger, per le edizioni del quotidiano Il Giornale. Si tratta di uno scritto intitolato “All’armi siamo (ancora?) fascisti, un abbecedario degli insopportabili luoghi comuni che dominano la scena dei media mainstream. Il libro è acquistabile nelle edicole tutta Italia
Ora e sempre Resistenza
Siamo perciò di fronte ad antifascisti in assenza di fascismo. A novelli don Chisciotte che non combattono nemmeno mulini a vento ma fantasmi persi nei viluppi del passato e della storia. Di questo cortocircuito che connette storiografia, cattiva politica e presunta «società civile», è paradigma l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani, sempre pronta a brandire come una clava una supposta superiorità morale. Associazione che stupisce per l’ossessionante attivismo e partecipazione. La presenza dei suoi associati è segnalata in ogni seppur piccolo e insignificante dibattito pubblico; dal presidio a Montecitorio ai sit-in, dai cortei agli scioperi. Partigiani che stupiscono soprattutto per effervescenza e brio perché, fatti due veloci calcoli, la quasi totalità di essi dovrebbe avere tra i 95 e i 100 anni.
Sottolineatura che va ripetuta fino alla noia non per oltraggiarne la memoria (anche se la storia della resistenza comunista italiana è costellata da episodi incomprensibili, sanguinari e sempre taciuti), ma per riaffermare con maggior forza che le battaglie del nostro tempo non vengono fatte da arzilli vecchietti bensì da militanti invasati, nati dopo il 1945, che nutrono la loro esistenza di ideologia e retorica.
Lungo questi decenni, l’antifascismo è stato infatti alimentato ad arte e per ragioni il più delle volte poco nobili. Giampiero Mughini raccontò che, nella Sicilia dei primi anni Cinquanta, si sapeva poco o nulla della diatriba fascismo e antifascismo, e vaghi canovacci di quella contrapposizione si trovavano solo in ambito letterario, come nel famoso romanzo di Vitaliano Brancati.
La medesima considerazione potrebbe essere applicata per tutto il meridione d’Italia. La narrativa resistenziale, così come la conosciamo oggi, è fatto posteriore. Ma anche questa piccola verità non si può sostenere perché la Resistenza è diventata marketing furbesco intorno al quale sviluppare consenso. Lo slogan «ora e sempre Resistenza», ostentato anche durante gli scioperi dei ferrotranvieri di Cuneo o dei lavoratori dell’ortofrutta del potentino, è ormai passepartout morale.
Fa il paio con l’ostinata asprezza che abbiamo rintracciato questa estate nei moniti finto paternalistici della signora Boldrini, del presidente del Senato Grasso o dell’onorevole Fiano. Tenere viva la fiammella del fascismo è perciò operazione furba che colloca un enorme macigno sulla strada della storicizzazione. E allora si preferisce bisbocciare nelle inesattezze e negli equivoci, perseverare nell’errore e continuare a nuotare in acque torbide per il timore di dovere decrittare il nostro Dna.
Questo doloroso esercizio di memoria ci obbligherebbe infatti a tutta una serie di ammissioni. Innanzitutto, a ricordare le adunate oceaniche e gli anni del consenso. Quando sul balcone di Palazzo Venezia c’era chi inneggiava a «libro e moschetto», in piazza c’erano tutti coloro che nei decenni successivi avrebbero impartito all’intero universo lezioni di libertà e democrazia. I santoni della morale laica e antifascista, a cui i moderni epigoni dicono di ispirarsi, erano in quella piazza, fisicamente o idealmente.
Per carità, cosa lecita il cambiare parere, ma la quasi totalità ha mutato convincimenti e posizioni quando all’orizzonte si iniziò a scorgere la sconfitta; e ciò non è questione di poco conto. Così come non è cosa di poco conto il fatto che, mutato il vento, abbiano voluto imporre la loro nuova ideologia al resto del Paese. Alcuni esempi restano nella memoria perché avendo assunto un tono ieratico ce li siamo ritrovati, nostro malgrado, in ogni discussione pubblica.
Norberto Bobbio, il verbo laico per eccellenza, la «morale» incarnata nel volto scavato, volle liberarsi del tarlo che lo corrodeva solo nel 1999. Iscritto al Guf, l’organismo universitario fascista, in più di un’occasione aveva tentato mediante raccomandazioni di ottenere una cattedra universitaria. Lo confessò alla fine della sua vicenda umana quando furono trovate lettere indirizzate al Duce tutte con l’identica chiusa finale: «Con devota fascistica osservanza».
E di giudici-morali (e di antifascisti e maestri di democrazia con la bava alla bocca) ne abbiamo avuti tanti. Giorgio Bocca, il 5 gennaio 1943, sul treno Cuneo-Torino incontrò l’industriale Paolo Berardi il quale stava tentando di convincere alcuni reduci dalla Russia che la guerra era ormai perduta. Bocca lo denunciò alla polizia per disfattismo non prima di avergli rifilato uno schiaffo. Berardi fu poi arrestato e condannato a due anni di confino.
Ma poi una lunga sequela di nomi che parte da Eugenio Scalfari e finisce a Dario Fo. L’antifascismo militante è dunque un mastodontico bazar di verità sottaciute di cui abbiamo riprova ogni santo giorno. La Stampa, quotidiano di Torino, quest’estate ha festeggiato i propri 150 anni con un supplemento che ne ha ripercorso la storia, le firme illustri, i reportage. E poi anche tutte le biografie dei direttori. Non tutte, in realtà. Come ricordato da Tony Damascelli sul Giornale, dal 1926 al 1945 c’è stato un salto temporale. Mancano quelle sotto il Ventennio. Anche quella di Curzio Malaparte.
Una piccola svista!