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Artefatti. L’epica archeofuturista di Ianva che sfida a duello la piccineria della modernità

by Donato Novellini
6 Settembre 2017
in Artefatti
0

ianvaLa vicenda musicale degli Ianva, inaugurata ufficialmente nel 2005 con l’Ep La ballata dell’ardito, è caso unico, non solo nell’italico sottobosco alternativo – alternativo a cosa poi? O per fare ché? I finti rap? chiederselo non sarà ozioso – ma a più ampio raggio nel panorama sonico europeo. Molto stimati dalla critica mestierante, per l’alta qualità dei dischi sfornati sotto l’egida dell’Antica fonografia il levriero, osannati da un pubblico devoto e sempre più numeroso, rappresentano tuttavia un elemento sanamente destabilizzante, talvolta pure equivoco spiazzante, nei salamelecchi corporativi, nel piccolo reame straccione dell’indipendenza strimpellante tricolore, nel cliché di quelli cresciuti in sciatteria, per poi essere paraculati direttamente sul palco giullaresco del concertone del primo maggio. Valga ad esempio l’apparizione di qualche anno fa al festival gotico Moonlight, allorquando gli Ianva vennero introdotti in scena da un improvvido speaker, il quale li ribattezzò pronunciando la ragione sociale letteralmente, ignorando l’utilizzo della V romana in luogo della contemporanea U. In quella assolata e plebea occasione, vi furono anche sparute contestazioni dal pubblico, respinte al mittente dal gruppo e quindi sovrastate dagli applausi dei convenuti. Ianva difatti –  verbalmente iànua –  è l’antico nome latino di Genova, donde il sodalizio prese forma. A rimarcare la marittima provenienza, fa bella mostra sulle copertine il logo, riportante antica moneta medievale detta genovino.

Stile antimoderno e vibrante epica, intrecciati nelle cinematografiche e talvolta teatrali composizioni, trovano Mercurio distillato nei testi sovente aulici, più frequentemente assai raffinati, ovvero strutturati in patrie lettere assai ben inchiostrate, finezze semantiche dai più dimenticate per far posto, oggi, a un purè di semplificazioni e sudditanze anglofone, “così la gente capisce”, mentre il gregge inebetito avanza nell’oblio. Ne è responsabile Mercy, invero più esteta e poeta che cantante, coraggiosamente avvezzo a mettere il dito nella piaga: Luisa Ferida, Pier Paolo Pasolini, Curzio Malaparte, Pierre Drieu La Rochelle, Mishima, tra altri controcorrente, si aggirano come scomodi spettri tra stigmate dannunziane, romanticismo di pece e muse in piume di struzzo; poi assenzio e divise militari, barocchismi e cesello per bomboniere di veleni, melodramma e sirene antiaeree, latinismi e francesismi, nebbie a nascondere pugnali e tradimenti. Questo purissimo cabaret ‘900, talvolta celiniano nell’invettiva, s’aggrotta cupo a soppesare la poca bellezza rimasta attorno. V’è, nella “ostinata e contraria” saga dei genovesi, tutto il pessimismo del buon gusto perduto (come nei milanesi Le Masque, ad esempio), la nostalgia del mito (come nel caso di Camerata Mediolanense o degli Argine), ma corroborati da affilato piglio pamphlettistico. Dei quattro dischi principali – il fiumano Disobbedisco! 1918 – 1920, il nerissimo Italia: Ultimo Atto, l’orwelliano La Mano Di Gloria e il recente Canone Europeo – piace qui ricordare il primo e l’ultimo, maggiormente calibrati nelle trincee di un nichilismo attivo e finemente ricamati in filigrane retrò.

Già esordire stilando un manifesto cantautorale dannunziano, oppiacea elegia agli arditismi fiumani, è atto meritevole d’imperituro encomio, giacché fra tutti i sapientoni ribelli progressisti con un microfono davanti al muso, nessuno ch’ebbe il coraggio di cantare l’unica vera rivoluzione italica, preferendo scimmiottare quegli stracciapalle di Bob Dylan o Simon & Garfunkel, inneggiando magari a Woodstock o ai teatrini sessantottini parigini. Superfluo tornare su Keller, già trattato in altra sede, ma davvero le sette stelle chiuse nell’ouroboros, il quis contra nos, poetica, vitalismo e arrembaggi, non possono essere messi a confronto con le stanche litanie dei nostri svogliati contestatori, con le piccole cerimonie di annoiate comparse bendate di rosso arcobaleno. Apice del disco d’esordio Tango della Menade, un plumbeo saggio da gran teatro, mitteleuropeo e simbolista, da parte della musa archeo-futurista Elettra Stavros, introdotta dal bravo presentatore come Ecate dell’arcadia prossima ventura e infera chanteuse. Qui esce fuori l’estro magico, incantatore, carismatico della controparte femminile nel combo Ianva. Stefania T. D’Alterio, con le mani sui fianchi come Sophia, è presenza indispensabile per controbilanciare i tetri abissi di Mercy. Mediterraneo fulgore, languori e mosse civette, l’estro della cantante si porta appresso il più bel guardaroba della diva, un po’ tragica e un po’ sopra le righe, comunque sempre da applausi viscerali.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=kn6hoOtblAM[/youtube]

 

Come il serpente che si morde la coda, l’ultima uscita – Canone Europeo – riprende certe suggestioni novecentesche, pur in serrato confronto con vicende dei tempi ultimi. La misera contingenza degli affari continentali, declino in sordido mercimonio, trattata con poetica scevra da cadute cronachistiche, prende la forma di un marmoreo giano declamante. A tratti nostalgico, a tratti belligerante, giammai supino all’ordine costituito, ai parametri comunicativi, ai codici e alle regole dell’atarassico galateo faccendiero, il doppio cantico degli Ianva sfida l’attualismo a duello, attingendo sapientemente da fonti morriconiane, come da gagliardi stantuffi marziali. Prezioso il contributo del sodale Enrico Ruggeri, alla voce nel pezzo che dà titolo al disco, eccelsi gli episodi più torbidi, come L’alba delle ceneri e Resurgente, altresì inusuale l’elegia a Benvenuto Cellini, omaggiato quale archetipo d’indomito tormento creativo. Disco possente e destabilizzante, parimenti ai precedenti necessitante di più ascolti per essere compreso appieno, custodito al solito in elegante veste grafica, s’erge monolitico sulle frattaglie di ciò che resta della musica d’autore italiana. Canone Europeo chiude il sipario ritualmente con un mantra apocalittico – la sabbatica traccia Patmos – invocando così fuoco e fiamme, in luogo di asettiche gomme, palline da tirare al cane. Grandi encomi, per quello che ci riguarda.

@barbadilloit

Donato Novellini

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