Al Mart di Rovereto è in mostra Un’eterna bellezza, a cura di Daniela Ferrari e Beatrice Avanzi, ovvero come da esplicativo sottotitolo: Il canone classico nell’arte italiana del primo novecento. L’astronave museale, quasi una base lunare se rapportata ai classici spazi d’arte italiani, disegnata dall’architetto Mario Botta, stupisce sempre per la circolarità messa nel quadrato, in fondo camuffando nella titanica modernità – con vetri e tubi d’acciaio – l’atemporalità sapienziale del progetto. Difatti, passeggiando per l’ampio viale antistante, così ricco di testimonianze ottocentesche e memorie irredentiste, il Mart non lo si vede proprio, incassato com’è dentro quinte urbane neoclassiche. Qui a Rovereto, anche grazie alle attività della Casa d’Arte Futurista Fortunato Depero, l’attenzione per le avanguardie primonovecentesche è prassi ormai consolidata, verrebbe da scrivere addirittura “storicizzata” in perfetto loco. La folgorante stagione futurista riposa gallonata in ampi saloni, dormiente su bianche pareti, ottimamente illuminata. Diventa al bookshop gadget, memorabilia, grafica per souvenir, mentre i giapponesi scattano foto strabiliati. Ci sono tutti: dai documenti originali dei Manifesti marinettiani a Boccioni, da Balla all’Intona-rumori di Russolo, dai polimaterismi di Prampolini all’aeropittura di Crali, dai dipinti dada di Evola al padrone di casa Depero. C’è pure tutto quello che al Futurismo girò attorno, emancipandosene per fare altro.
La mostra in questione, approfondisce per l’appunto quello che venne definito Ritorno all’ordine, includendo nel percorso la metafisica del tempo di de Chirico e Savinio e quella dello spazio di Sironi, il ritorno alla figurazione e al ritratto di Oppi, Funi, Casorati, Tozzi, Donghi, la poesia degli oggetti con Morandi, Dudreville, De Pisis, la scultura poi, ben rappresentata da Wildt e Martini. Ovviamente aleggiano gli spiriti di Margherita Sarfatti (il Novecento), Roberto Longhi e Massimo Bontempelli (Realismo Magico), anche se il corposo catalogo si fa carico di sviscerare appartenenze, militanze, abbandoni, casi a parte e percorsi paralleli. Ancora più emblematico e suggestivo dal punto di vista critico, è il rapporto col regime fascista, dato che questa forma di restaurazione artistica coincise proprio con i cosiddetti anni del consenso. D’altronde è uno schema mentale consolidato, per altro già sperimentato nella Russia bolscevica: la Rivoluzione ha la necessità di creare un immaginario estetico di rottura, si pensi ai guastatori Majakovskij, Malevic, Kandinskij, Tatlin, qui da noi ai futuristi e dadaisti. Quando poi il potere è raggiunto, a che pro fomentare ribellione e iconoclastia? Serve un nuovo codice pacificatore in grado, come sempre nella storia, di mitizzare l’ordine nuovo costituito. Si confronti ad esempio Aleksandr Deyneka, massimo esponente del realismo sovietico, con quanto prodotto in Italia negli stessi anni. Qui sta il vero limite della mostra, ovvero l’intento manifesto di creare ponti con la Spagna e gli Stati Uniti, trascurando completamente il ben più motivato legame col ritorno all’ordine dell’arte sovietica.
Ciò che stupisce e meraviglia, nelle opere esposte, è quel gioco di vuoti riempiti d’assenza, pratica pittorica sottilmente inquietante, consegnante alla vista un senso di sospensione e di alterità, di tradizione classicista trasfigurata nel tempo, nello spazio, dalla storia, dalle umane vicende. Si noti ad empio in Felice Casorati, per altro giustamente messo in copertina di catalogo con Ritratto di Renato Gualino, quel miracoloso ricongiungimento all’arte del ‘400, filtrato però dal simbolismo e da umori avanguardisti sotto traccia. I ritratti di donne, poi, ci restituiscono meravigliose forme d’eleganza e di fine sensualità, mai più raggiunte negli anni a venire. Non si tratta di passatismo pittorico quindi, giacché le opere risultano oggettivamente calate nella loro epoca – anzi bramose di fondare una nuova epoca… o epica estetica – ma come velate d’attesa e d’assenza. La politica, con quelle manacce grezze, guastò ogni cosa, volendo attribuire connotati ideologici laddove non v’erano in maniera così esplicita. Molto più probabile che i giochi di vuoti, le malinconie silenti e i languidi abbandoni, riguardassero la memoria collettiva della Grande Guerra – trauma europeo che vide partecipi anche gli artisti – più che rimarcare forme critiche nei confronti del munifico, soprattutto per le arti, regime fascista. Certo, Felice Casorati e Cagnaccio di San Pietro per certo coltivavano idee diverse, in nessun modo potrebbero essere accostati al fascismo. Eppure, sorvolando le transeunti piroette della politica, appare con tutta evidenza il tentativo di fondare un codice nuovo, originale idea di bellezza tutta italica, segno del tempo o messaggio in bottiglia, gettato nel mare della Storia. I flutti inabissano, i flutti restituiscono.