![La prima volta del Cavallino. La "Bimotore", appena ultimata, in posa con Nuvolari al volante ed Enzo Ferrari sorridente, davanti alla scuderia. L'auto non ha emblema. Ferrari porrà, anche sulla calandra, il suo Cavallino al posto del Biscione, suscitando le proteste dell'Alfa Romeo](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2017/07/Bimotore04-310x208.jpg)
Montevideo, 4 luglio 2017
Gli anni Trenta sono caratterizzati, in campo automobilistico, da una serie di innovazioni che trascendono sia la dimensione post-pionieristica o artigianale, ancora vitale in Italia, sia la grande produzione di auto di serie, soprattutto negli Stati Uniti, dove le dimensioni del Paese e del mercato, l’abbondanza di materie prime, di petrolio, una diversa politica fiscale, favoriscono la creazione di grandi industrie. Quindi, dal 1925 in poi, di una serrata concorrenza alla ricerca di comode carrozzerie (le pesanti full-size) per un pubblico ormai esigente, stanco dell’eterna Ford T, di diverse soluzioni meccaniche, di motori sempre più potenti, elastici, silenziosi, di accessori e comfort. Abbiamo così le nuove carrozzerie aerodinamiche Air-flow, lanciate da Chrysler nel 1934, la trazione anteriore (la Cord L-29 del 1929 fu la prima automobile a trazione anteriore ad essere prodotta in serie a livello mondiale, seguita dalla Citroën Traction Avant, nel 1934), la scocca autoportante (questa dovuta all’italico genio di mônsù Vincenzo Lancia ed alla sua Lambda del 1923), i nuovi, non in assoluto, motori a V, di 8-12 e persino 16 cilindri (Cadillac e Marmon), le sospensioni a ruote indipendenti, i freni idraulici, brevettati dalla Lockheed fin dal 1922 (adottati dal 1924 da Chrysler e marchi del Gruppo, Dodge, Plymouth, DeSoto, ma Ford continuerà con gli obsoleti freni meccanici fino al 1941!), e molto altro ancora. Tra le due sponde dell’Atlantico, sia pure con differenze di strategie, di gusti, di realtà socioeconomiche, si attivò una competizione ed una interazione di nuove soluzioni tecnico-estetiche incessante e positiva.
Le auto “da favola”, di alta gamma (Cadillac, Packard, Duesenberg, Hispano Suiza, Isotta Fraschini, Maybach, Rolls Royce, Bentley, Delâge ecc.), sono all’epoca una netta minoranza, sia nella vecchia Europa, sia in America, per un pubblico di élite. Hanno successo molti carrozzieri, che “vestono”, su misure e portafoglio dei clienti, i telai approntati dalle industrie (per l’Italia: Touring, Garavini, Stabilimenti Farina, Pininfarina, Bertone, Castagna, Frua, Ghia, Moretti, Scaglietti, Michelotti, Vignale, Viotti, Zagato e vari altri).
Un capitolo a parte, rimanendo a quel periodo, ma fino a poco più di vent’anni or sono, le “follie” di corse e motori. La mia generazione si ricorda del Gran Premio del Valentino, a Torino, nel 1955 vinto da Alberto Ascari su di una Lancia D 50, un assordante bolide rosso che sfrecciava ad un isolato da casa mia (!); delle ultime, pericolosissime ed affascinanti, “Mille Miglia”; quindi della curiosa Tyrrel P-34 a sei ruote del 1976 – una vettura più da cartoon che da gara di velocità – delle mostruose Ford, Porsche, Ferrari delle “24 Ore di Le Mans” all’inizio degli anni ’70, sport-prototipi chiuse che nei rettilinei toccavano i 400 km/h e, purtroppo, di tante vittime tra i piloti e gli spettatori, ovunque. Poi, per fortuna, ridottesi grazie a nuove normative e “circuiti sicuri” introdotti a partire dal 1994, cioè dall’incidente mortale, il weekend nero di Imola, quando perse la vita Ayron Senna, su Williams FW 16.
Fino ad allora le automobili da competizione erano state un trionfo di cilindrate e di tradizioni dure a morire, anche nell’innovazione. Le cilindrate poi hanno iniziato a scendere, è cominciata l’epopea Audi nella categoria Prototipi, con il motore a gasolio e, infine, la tecnologia ibrida. Oggi pare questa la strada obbligatoria di ogni costruttore per una sagace e fruttifera strategia di marchio a favore dei modelli stradali. Attualmente in Formula 1 si usano motori V6 turbo di 1.600 cc. L’ultima “24 Ore di Le Mans” è stata vinta da una Porsche 919 Hybrid 8 (con batterie agli ioni di litio): 4 cilindri a V di 2 litri di cilindrata, turbocompressore elettrico, con oltre 900 Cv di potenza. Negli Anni 60 e 70 c’erano i V-12 boxer da 5,4 litri per oltre 1.000 Cv. O i possenti Big Block americani da oltre 6,6 litri di cubatura. Il più grande motore prodotto fu il Cadillac 8-V da 8.200 cm³. Oggi simili motori rimangono sulle “macchine per gli sceicchi”, tipo le Bugatti (proprietà della Volkswagen) Veyron o Chiron, motore quadriturbo 16 cilindri da 8.000 cc., 1500 Cv., velocità massima, limitata elettronicamente, 478 km/h, al costo, quest’ultima, (2016) di 2,66 milioni di dollari più tasse!
Tornando all’epoca delle “follie”, sul finire degli Anni ’20, alla spasmodica ricerca di cavalli le Case automobilistiche si diedero alla moltiplicazione dei cilindri. Tra l’altro con una idea che oggi appare sconcertante, ma che all’epoca risultò pragmatica per ottenere potenza senza necessità di stravolgimenti progettuali (dover ridisegnare tutto) su auto già esistenti, cioè di affiancare ad un motore… un altro motore identico! Il risultato lascia, col senno di poi, alquanto sgomenti se rapportato al livello tecnologico del tempo, alla sicurezza, alla qualità dei materiali. Si trattava dei motori ad “U”. I motori ad “U”, costituiti da due unità indipendenti, rese solidali da gruppi di ingranaggi che di solito agivano sull’unico cambio e differenziale, potevano essere alloggiati in telai già esistenti. Il risultato erano molti cavalli “a buon prezzo”, ma anche nuovi problemi: consumi assai elevati, assetti e potenze quasi ingestibili, rapida usura delle gomme, impianti frenanti inadeguati. I motori ad “U” non hanno certo avuto fortuna, ma ammirevole appare il coraggio di mettere in campo auto dotate di una complessità così pazza da risultare straordinaria. Auto assurde e fragili per piloti dotati di un fegato che oggi pare sovrumano.
Un motore ad “U” fu il 16 cilindri costruito da Bugatti nel 1916, prima di cedere il progetto, in licenza, alla Duesenberg. L’ interscambio di idee con il settore aeronautico era allora continuo e Bugatti lo aveva messo in cantiere pensando ad un aereo…Alla Bugatti si tornò a parlare di questo tipo di architettura a fine Anni ’20 per aumentare la potenza delle Type 35 da Grand Prix. La soluzione messa in campo fu semplice: unire due 8 cilindri della 35 B ed ottenere un’unità motrice di grande potenza (240 Cv.), coadiuvata da un compressore volumetrico Roots, distribuzione monoalbero con 3 valvole per cilindro ed alimentazione con doppio carburatore Zenith. Ognuno dei due 8 cilindri, provvisto del proprio albero motore, era collegato all’unico albero di trasmissione attraverso una cascata di ingranaggi. Ne fece le spese il povero Pietro Bordino.
Negli anni Dieci e Venti, Bordino fu con Felice Nazzaro ed Antonio Ascari uno dei piloti italiani più famosi. Insieme a Nazzaro, il suo nome è associato alle vittorie a bordo di vetture della FIAT. Vinse nel 1922 il Gran Premio d’Italia, corse la 500 Miglia di Indianapolis del 1925 arrivando decimo. Bordino era pure stato incaricato di tentare il record di velocità con la mostruosa FIAT S 76, di quasi 30 litri di cilindrata. Nel 1911 il pilota torinese guidò sul circuito di Brooklands e sulla spiaggia di Saltburn una Fiat S 76 con la quale superò i 200 km/h, per il record di velocità sul miglio…Si disse pure (?) che a Long Island avesse toccato i 288 Km/h (auto recentemente restaurata: https://www.youtube.com/results?search_query=fiat+s+76).
Bordino morì nell’aprile 1928 ad Alessandria, mentre stava provando una Bugatti Type 35 C prima di una gara. La Fiat si era da poco ritirata dall’attività agonistica. Improvvisamente un cane gli attraversò la strada e s’ incastrò sotto la vettura tra le barre dello sterzo, rendendo la vettura ingovernabile. Il pilota finì nelle acque del fiume Tanaro e morì annegato. Ettore Bugatti considerò troppo rischioso il prosieguo dello sviluppo, probabilmente non tanto per la morte di Bordino, quanto per la preoccupante unaffidabilità del motore e la tenuta di strada.
Esattamente come nel caso della Bugatti, pure la Maserati decise, nel ’29, di affiancare due motori 8 cilindri bialbero (con un angolo di 25° tra le due bancate) ed ottenere un 16 cilindri 4 litri, abbinato ad un unico cambio a 4 marce ed alla trazione posteriore. La potenza massima erogata dalla V 4 era di circa 300 Cv., una forza che generava un consumo assai elevato di carburante (con due grandi serbatoi, quindi) e di pneumatici. Secondo la Casa, la velocità massima poteva abbondantemente superare i 250 km/h. Alfieri Maserati la pilotò personalmente alla sua prima gara, il Grand Prix di Monza del 15 settembre 1929, giungendo secondo.
Il reparto corse dell’Alfa Romeo, diretto da Enzo Ferrari, doveva sostituire la P 2, ormai a fine carriera; la stessa 8 C (o P 3) in allestimento non appariva, nelle premesse, allo stesso livello delle nuove possenti Mercedes–Benz SSK. La soluzione fu ancora una volta trovata nell’idea “risparmiosa” di moltiplicare l’utilizzo di motori già disponibili, affiancando due unità 6 cilindri in linea della 1750 GS, alloggiati in un telaio 8 C, ottendo così l’Alfa Tipo A. I due propulsori avevano la loro “personale” trasmissione: un cambio ed un differenziale ciascuno! Complessivamente questo 12 cilindri ad “U” erogava una potenza di 230 Cv. per una velocità di circa 200 Km/h. Ora il progettista Vittorio Jano, figlio di ungheresi immigrati in Piemonte, aveva a disposizione una base utile per lavorare, ma la sua strategia subì una clamorosa smentita in occasione del Gran Premio di Monza del maggio 1931: l’autovettura aveva vinto la Coppa Acerbo con Campari, quello stesso anno, ma era poco robusta e difficile da controllare; già durante le prove Luigi Arcangeli perse la vita mentre era al volante della Tipo A. Vinse invece una nuovissima Alfa 8 C condotta da Nuvolari e Campari.
Luigi Arcangeli, di Bordonchio, era il “Leone di Romagna”, squadrista, amicissimo di Ettore Muti – al quale, secondo Gian Carlo Fusco, imprestava pure la sua personale Bugatti per scappate galanti – spericolato sulle moto, sulle auto, nella vita. Alla guida della Maserati 8 C-2500, aveva vinto, tra l’altro, il Gran Premio di Roma. Il Duce, addolorato, era notoriamente superstizioso e bisognava cambiare musica… Tra l’altro la struttura ad “U” non era stata un successo per nessuno, essendo più pesante di un equivalente motore a V, più assetato di benzina e, nella configurazione a cilindri paralleli, necessitando di una biella a “Y” di ardua progettazione, non solo di un buon trattamento termico degli acciai.
Jano rimise mano alla P 3, la prima “monoposto”, esplicitamente studiata per i Gran Premi. Era dotata di un motore ad otto cilindri in linea con un sistema di sovralimentazione volumetrica. La cilindrata variò negli anni: nel 1932 fu di 2.654 cm³, nel 1934 di 2.905 cm³, nel 1935 di 3.165 cm³. La vettura aveva un peso contenuto per l’epoca (680 kg), con il monoblocco in lega leggera. La 8 C, amatissima da Nuvolari, non reggeva, tuttavia, il confronto con le nuove potenti “frecce d’argento” Mercedes-Benz ed Auto Union, che il nazismo trionfante in Germania aveva scoperto essere un formidabile strumento di propaganda, da tutelare ed aiutare finanziariamente.
Così Mussolini, personalmente, nel 1935, chiese ad Enzo Ferrari e collaboratori di fare qualcosa. C’era in ballo il prestigio dell’Italia, del Regime, da sempre cultore della velocità: continuare a perdere era un opzione da scartare. L’idea, che oggi fa ridere, partorita da Ferrari e sviluppata da Luigi Bazzi, progettista della vettura, accantonata l’idea del motore ad “U”, fu d’installare su di un telaio P 3, adattato, due motori 8 C , uno posteriore ed uno anteriore, in modo da raddoppiare cilindrata e potenza. Anni dopo, Ferrari ammise che “erano stati dei pazzi”! In effetti, Ferrari è stato un grande conoscitore di uomini, un concreto realizzatore del suo sogno di produrre le auto più veloci e vincenti del mondo, ma non sempre con una lucida visione ingegneristica delle vetture. Grande appassionato del motore, non si preoccupava molto delle altre componenti progettuali.
Il risultato fu qualcosa di sublime ed assurdo, la Alfa Romeo 16 C Bimotore 1935, per le competizioni a “Formula Libera”. Una creatura infernale, con oltre 500 CV. di potenza distribuita su 4 ruote alte e strette, un mostro ruggente uscito da un girone dantesco. Tazio Nuvolari era un pilota straordinario. Il “Mantovano Volante” poteva guidare di tutto, ma quella era veramente eccessiva. La telaistica inadeguata alla ripartizione dell’enorme potenza gli fece capire già al primo collaudo, sulla Brescia-Bergamo, che con quell’auto non si poteva fare nulla, troppo difficile da controllare in curva e troppo instabile persino sul dritto. Trazione posteriore, due motori sovralimentati a 8 cilindri da 3,165 litri; velocità massima 328 km/h.; potenza complessiva 540 CV a 5.400 giri/min.; serbatoio: 2 x 120 = 240 litri; serbatoio olio: 40 litri; masse a vuoto: circa 1.000 kg. (in ordine di marcia 1,3 tonnellate). Al Gran Premio di Tripoli i piloti della Scuderia Ferrari, Nuvolari, Chiron e Sommer, giunsero quarto, quinto e sesto (Nuvolari e Chiron con la 16 C) , molto distaccati dalle tedesche. All’AVUS di Berlino – due lunghe, pericolose rette parallele, teoricamente il circuito più adatto per la veloce Bimotore – nonostante il tentativo di aumentare la cilindrata per ottenere maggior coppia, non andò meglio: Chiron giunse secondo, staccato da Fagioli con la Mercedes, e Nuvolari dovette ritirarsi. Troppe, tra l’altro, le soste per il cambio dei pneumatici, che si usuravano dopo pochi giri. Apparve così chiaro che non era possibile continuare con lo sviluppo della Bimotore. Anche Enzo Ferrari, finalmente, lo comprese. Quello stesso anno Nuvolari vinse al Nurburgring, con la vecchia Alfa P 3, l’indimenticabile VIII Grosser Preis von Deutschland.
Per dare comunque alla Bimotore, ed a Ferrari, la soddisfazione di un risultato, Nuvolari fu artefice, il 15 giugno del ’35, di un record mondiale di velocità sulla Firenze – Mare a bordo di quell’auto praticamente inguidabile: colse il primato sul chilometro lanciato (321,428 km/h) e sul miglio (323,125), raggiungendo la punta massima di 364 km/h. Epico! Da allora la 16 C è diventata solo una follia da museo, mai più utilizzata. Una vettura incredibile, un capriccio, un clamoroso fallimento, ma che, grazie agli uomini straordinari che ne sono stati protagonisti, su tutti Enzo Ferrari, è diventata una leggenda. Seguita da una favola vera, autentica e corposa, in pista fino agli anni Cinquanta, l’Alfa Romeo 158/159 Alfetta. La Ferrari S.p.A nascerà nel ’47.
Dei due esemplari costruiti, uno fu venduto ad una coppia di inglesi e l’altro, non trovando compratori, fu demolito. L’esemplare superstite fu ritrovato in Nuova Zelanda e restaurato negli anni ’90 da un collezionista inglese. Precedentemente, negli anni ’70, l’Alfa Romeo realizzò una replica della “16 C Bimotore”, sulla base dei disegni originali. La replica, voluta da Giuseppe Luraghi per fini espositivi nel Museo Storico Alfa Romeo di Arese, è caratterizzata da una “carrozzeria didattica”, con parti trasparenti laterali. Ed il logo S.F.
(Cfr.http://www.innerfognews.com/2015/11/30/ferrari-e-lalfa-romeo-bimotore-storia-di-una-leggenda; http://ruoteclassiche.quattroruote.it/auto-moto/automobili/alfa-romeo/come-eravamo).
*già ambasciatore d’Italia in El Salvador e Paraguay