La maggior parte dei poeti ama proporsi attraverso un verseggiare ermetico e astruso, quanto più possibile inintelligibile alle masse. Ma è davvero questo un segno di superiorità, oppure la grande poesia è sempre stata semplice e diretta come un prodotto naturalmente scaturito?
1 – Leopardi e la necessità di essere naturali
Non spaventatevi! Proviamo a partire da un autore scolasticamente molto gettonato, Leopardi. C’è un magnifico passo, in quell’inesauribile pozzo di riflessioni poco esplorato che è lo Zibaldone, sul quale vale la pena soffermarsi, quando si pensa alla poesia più vicina a noi. È di un’attualità sorprendente. “Provatevi a respirare artificialmente, e a fare pensatamente qualcuno di quei moltissimi atti che si fanno per natura; non potrete, se non a grande stento e men bene. Così la tropp’arte nuoce a noi: e quello che Omero diceva ottimamente per natura, noi pensatamente e con infinito artifizio non possiamo dirlo se non mediocremente, e in modo che lo stento più o meno quasi sempre si scopra”.
Come sempre capita, il buon vecchio poeta di Recanati non sbaglia un colpo. Meno polverosamente “classico” di come lo presentino i professori a scuola, egli era uomo molto attento al dibattito intellettuale del proprio tempo. Tanto attento che buona parte di ciò che ha scritto potrà essere considerato valido per tutto il secolo a seguire, fino ai giorni nostri. Nella fattispecie, ha ragione da vendere quando lamenta una perdita di naturalezza nei poeti. Effettivamente, per quante analisi del testo vi abbiano potuto propinare controvoglia nei manuali, di rado un autore costruisce e dà una consistenza così stratificata al suo lavoro con lo stesso fare ponderato che noi gli attribuiamo ricostruendo i suoi processi mentali a posteriori. C’è anche chi lo fa – forse ancora più in poesia che nella narrativa – e, infatti, il più delle volte i risultati sono di una pesantezza insostenibile. Una poesia vera, al contrario, risulta semplice, immediata, e diretta, contrariamente alla vulgata secondo cui “se non è incomprensibile e da rileggere almeno cinquanta volte, non è di valore”. Si sente, insomma, che è scaturita inarrestabile come un fiotto di sangue segue immediato alla ferita. Non voglio certo dire con ciò che le poesie, come i romanzi, non abbiano un processo anche lunghissimo di revisione. Si può valutare per mesi l’uso di un termine piuttosto che un altro. Però, di base, ci deve essere una poesia sostanzialmente riuscita. Altrettanto dicasi per un romanzo: su un testo di valore e ispirato ci si può lavorare; un testo mal scritto e forzato andrebbe semplicemente cestinato.
Una vera poesia è come ogni grande canzone della musica popolare: viene dal cuore – quasi bisogna rincorrerla sul foglio, mentre la si scrive – e arriva a chiunque abbia una seppur minima apertura verso l’umano. Quando cominciate a vedere che l’autore deve avvalersi di note e notarelle a piè di pagina, con didascalie del genere “la poesia fa riferimento al fatto verificatosi in bla bla bla, in data bla bla bla”, sappiate che il più delle volte vi trovate di fronte a una solenne fregatura. La poesia che va spiegata è una poesia non riuscita, un figlio concepito a tavolino o in provetta, insomma un abominio contro natura.
2 – Claudia Di Palma e la metafisica nel nostro tempo
C’è tutta una serie di autori che in questo senso ritengo si distinguano, in particolare, nelle loro poesie meno pensate. È il caso, per esempio, di Claudia Di Palma con la sua opera prima, Altissima Miseria, Musicaos Editore. La giovane verseggiatrice, che si fa notare per un rilancio della poesia metafisica, ha incontrato vasto e positivo consenso da parte della critica, riuscendo niente meno che a fare il suo ingresso nel sancta sanctorum della lirica italiana, ovvero Poesia, il mensile della Crocetti, con una recensione entusiastica. In verità, contravvenendo a quanto scritto su di lei, ritengo che il suo testo sia tanto più vivo, quanto più manifesta evidenti tracce di imperfezione. E sono convinto che la sua opera prima abbia in effetti dei passaggi a volte deboli, di scarsa rilevanza sul piano poetico, un poco forzati (Quando la conta dei numeri è troppo poco/ e non ti addormenti numerando le pecore,/ quando si danno numeri agli uomini/ e degli uomini si fanno numeri/ ma tu non ci credi/ a questa grossolana traduzione/ della carne in un codice fiscale). Tendenzialmente, direi che la Di Palma è tanto meno incisiva quanto più tenta di trattare la concretezza. Al contrario dà la migliore prova di sé quando si apre all’epifania estemporanea del momento, all’illuminazione che brucia la realtà verso una dimensione altra (Adesso è l’alba, il gesto annuncia./ E io cammino sicura/ con le mie membra di spavento). Claudia Di Palma è fondamentalmente una dickinsoniana di nuova generazione: distante dalla contingenza, ama contemplare, ma oltre le cose, sprofondare in sé per superarsi (Commercio d’alberi qui/ e recinti d’aiuole, qualche gioco/ per bambini e qualche vecchio/ affranto di verde. Vengo qui/ a confessare le mie incertezze,/ le perdite di foglie, le voglie affaticate/ nel silenzio. Come fosse chiesa/ questo ritaglio d’ombra/ esiguo, sempre più piccolo, lo scarto/ del negozio d’abbigliamento,/ il resto di centesimi). E questo, a volte, le riesce divinamente – lo si percepisce – appunto perché connaturatole molto più di qualunque tentativo forzato di meditazione su un argomento, o di riflessione metapoetica in versi, dove la sua forza più intima si snatura e si disperde. Alcuni tra i suoi versi migliori chiariscono infatti quale sia la reale natura del suo sentire:
Soffro di voragini, mi cado dentro
e, per quanto possa chiedere a un altro
il colpo ferente della sua presenza,
rimango qui, nella dolcezza dei baratri,
mi trattengo per continuare a cadere
svincolata dalle mie stesse mani
abbandonata sul fondo delle mie ossa.
Delle volte comunque anche la riflessione trova in lei una dimensione più felice, quasi assume echi montaliani e capacità evocative che superano la gravità del concettuale (C’e un attimo in cui stiamo per fare/ ma non facciamo ancora,/ vorremmo sapere ma non sappiamo./ Quello è il luogo della nascita./ Poi la tua decisione, la tua legge/ cessa di vedermi e io posso fare lo stesso/ con te, ma indugio, e il vento scatena temporali,/ la tenda sbatte forte sulla finestra./ Ecco il confine, dove noi siamo insieme).
Altissima Miseria resta comunque, al netto di piccole sbavature e cadute di tono, un testo di considerevole dignità poetica che ribadisce, attraverso il verso, l’eterna valenza dell’interrogazione metafisica, oltre che, come ben racchiude l’ossimoro del titolo, la convivenza nell’uomo di vertice e bassezza, di una inanità che funge da trampolino di lancio verso una possibile ascesa esistenziale.

3 – Enrico Marià e la durezza senza fronzoli della vita di strada.
Una poesia sicuramente diretta e priva di fronzoli è quella di Enrico Marià, con Cosa resta, Puntoacapo Edizioni. Di facile comprensione, ma non per questo meno rigorosa e strutturata. Anzi, straordinariamente solida considerata la difficile e tormentosa materia che tratta. In stretta connessione con la vita bruta della strada, Marià traspone in versi l’esperienza più cruda dell’emarginazione, della droga, e del degrado. Finalmente – rarissimo caso – un autore che non racconta esperienze al limite per sentito dire, di seconda mano, o solo perché ha precedentemente intrapreso una distaccata e sicura operazione di osservazione antropologica. Secondo la migliore tradizione americana, al contrario, questo poeta della periferia e della decadenza, parla di ciò che conosce e conosce ciò di cui parla. La sua è certamente la migliore delle condizioni possibili per fare una poesia che abbia realmente il gusto aspro della miseria. In luogo del solito intellettuale italiano tanto umano e umanitario da non avere quasi più niente a che fare con i singoli uomini, il poeta si trova qui nella posizione che negli States, per esempio, fu di Carver che riuscì a portare agli occhi del pubblico il racconto di una vita che nessun scrittore ha solitamente sperimentato sulla propria stessa pelle.
Nei varchi tra i capannoni
un sole monco
sputa schizzi di luce.
Il centro rifiuti
sta al Cipian
nella strada per il canile
dove una volta, per finta,
ci curavano i tossici.
Coperta la telecamera
cacciamo elettrodomestici
da vendere agli africani.
Odio i soldi che servono;
Barbara era caparra
per i debiti del padre
così ha perso la verginità;
prendilo in bocca
sussurravano;
anche l’amore
è cosa da ricchi,
scarti del mondo
non c’importa morire.
Si noterà in questa poesia – e tale schema si ripete con regolarità – che le liriche di Marià hanno questa singolare peculiarità di iniziare con abbrivi terribilmente crudi, quasi raggelanti (Al minorile fa paura addormentarsi/ ché diventi puttana dei grandi./ Tocca a tutti/ ti svegli di colpo/ pantaloni sfilati/ bocca tappata), per trovare la chiusa in una meditazione sulla morte dall’eco spesso pascaliana (guariscimi/ prima che sia la morte/ a darmi un senso). Se non si fa fatica a comprendere perché la possibilità della morte, alla luce dell’esperienza della droga, sia temuta e allo stesso tempo vagheggiata come un approdo di salvezza, colpisce come a livello stilistico questo accostamento tra il racconto di vita vissuta e la meditatio mortis trovi una così equilibrata soluzione.
È d’obbligo fugare ogni dubbio in merito a queste liriche: le descrizioni più crude non sono facili strizzate d’occhio alla provocazione gratuita. In Marià vi è chiaramente, invece, la necessità di portare in superficie questo sottosuolo infame e allo stesso tempo così umano, aprire uno squarcio sotto il manto stradale e mostrare il guasto che la città nasconde, le fondamenta marcescenti dell’urbanesimo contemporaneo. In tal senso, si può dire che la sua poesia sia sociale tanto quanto morale, dove la moralità risiede nel dire ciò che le consolanti visioni del mondo vogliono evitare di considerare nella disperata promozione di un universo positivo inesistente.

4 – Savina Dolores Massa, per un nuovo intimismo viscerale.
C’è poi una nota autrice, con una lunga carriera letteraria alle spalle, che irrompe ora sulla scena lirica nazionale. Irrompe perché, malgrado una lunga consuetudine con la scrittura poetica, i suoi versi non avevano mai visto la luce, pur essendo circolati nelle stanze che contano di diverse note realtà editoriali. Alla fine, è stata la sua storica casa editrice, Il Maestrale, a decidere di dar loro dignità di pubblicazione. Suddiviso in due sillogi distinte, arriva in libreria Per assassinarvi, sottotitolo Piacere, siamo spettri, di Savina Dolores Massa.
Spesso identificata con il filone detto del “realismo magico”, rivisto e trasposto in ambito italiano, nella fattispecie sardo, la scrittrice ha ampiamente respinto qualunque tipo di etichetta, tanto più quella regionalistica. Certamente, a fronte di questo diniego esistono comunque delle assonanze con quel tipo di scrittura e ciò non stupisce dato l’amore della Massa per Gabriel García Márquez, oltre a un, per così dire, clima affine tra l’isola di provenienza e la terra dello scrittore suddetto. Questo lo si può constatare leggendo la seconda silloge, Piacere, siamo spettri, dove tutto un vicinato dei tempi andati, con le sue storie e miserie, riprende vita e si racconta. Decisamente, qui, abbiamo una Massa classica, molto in linea col suo percorso narrativo e, bisogna dargliene atto, capace di reimpostare e riadattare il suo universo romanzesco all’architettura stringente del verso.
Ma è soprattutto nel primo, Per assassinarvi, che Savina raggiunge i suoi vertici riuscendo a proporre alcuni esempi di un lirismo che si potrebbe definire viscerale, denudando l’anima ed esponendola alla stregua del corpo, andando probabilmente anche oltre certi esempi a cui ci avevano abituato poetesse, in Italia, quali la Valduga (Vi concedo le mie natiche impudiche/ le cosce scarne/ le posture maschili e/ quelle di grazie ruffiane/ di femmina che non è madre/ e vale meno delle altre/ io/ mi umilio in libidini immacolate/ dubbi fecondi/ che tengo in grembo/ feti/ a morire di cancrena imporporata/ e niente è indolore/ non la mia disperata virilità/ che celo sotto tre palmi di polvere/ e la mediocrità/ di quando mi accontento/ e la superbia/ di quando odio davvero/ e il sangue/ che sgrida le ossa per il chiasso/ io/ mostro il sesso/ ai ciechi che hanno paura di toccarlo/ ma accendo/ labirinti di immaginazioni/ senza uscite/ e senza ansie d’amore/ vendo i succhi del mio corpo/ a creature simili ad un quarto di luna/ come chi/ ha una vecchiaia di vent’anni/ o un’allegria di antica quercia/ io/ mangio pane e zucchero/ accanto a morti di cirrosi/ e che non mi si biasimino le passioni/ io/ sono una/ che ama le parole barocche/ con la crudezza giusta/ per assassinarvi).
Come si potrà facilmente notare, si tratta di versi ben strutturati e densi, ma col pregio di trascinare, trasformando la narrazione del sé della poetessa in un avvincente sprofondare nell’abisso dell’altro. È affascinante questo travaglio, mai eccessivamente ombelicale, verso l’affermazione della propria individualità. Perfino un certo femministeggiare della Massa non è mai patetico, o grottesco, ma ha il valore certo unico di una personalità strabordante che aggredisce il mondo e uccide gli stereotipi con una grazia davvero superiore (Portare nel letto della notte/ nuda/ due seni di meraviglia vana/ mai succhiati da figli/ solo da uomini alla ricerca di goccia lattea della madre./ Lasciare aperta la finestra anche se inverno/ ascoltare del buio il principio:/ bidoni di spazzatura dati agli usci,/ frammenti di frasi dirette verso un saluto/ può essere, A domani/ o anche un sospeso che non sia catena/ Ci si vede./ Canti nordafricani di chi ha peccato con un vino./ L’abbaio di un cane che ha cagato il marciapiede/ e pretende lo sappia la luna di un quartiere./ E se non c’è la luna?/ Per un cane un lampione è già poesia./ Quei seni sentono la brezza infine silenziosa/ è tardi/ si ninnano tra loro/ con il fiato/ sapendo d’aver vissuto quanto basta/ per dormire ciò che resta fieri di non aver svezzato).

5 – Noemi De Lisi: la semplicità di una poesia narrativa
Una menzione speciale merita poi una giovanissima ragazza alla prima pubblicazione: Noemi De Lisi, con il suo La stanza vuota, Giuliano Ladolfi Editore, 2017. Notevolissima, la poetessa propone un tipo di scrittura spiazzante e innovativa. Adottando un verseggiare all’apparenza piano, prossimo alla prosa, dal carattere narrativo, la De Lisi ha l’abilità di generare comunque una tensione sottile. Nella sua poesia, il quotidiano diventa mesto delirio, i rapporti umani assumono i connotati di una possibile interazione con spettri circolanti per la casa e nascosti nel sottosuolo. Un’inquietudine che dà i brividi attanaglia il lettore, in questo racconto in versi suddiviso in tre sezioni, che sembra la trasposizione in poema di un film bergmaniano, ma raccontato dalla penna sintetica ed ellittica di un Raymond Carver. Si può essere certi che sentiremo ancora parlare di questa ragazza, la cui scrittura rompe con qualsiasi tradizione e sconvolge il panorama letterario italiano con un prodotto che, se sicuramente si era già visto da qualche parte – oramai niente è totalmente nuovo –, si distingue dai fenomeni maggioritari.
Ho sepolto il tuo nome e ho dimenticato il luogo.
Quando cammino inciampo, cado, mi ricordo.
Poi mi rialzo, guardo l’asfalto, seguo le crepe:
“Cos’è che cercavo?”
Tutta la città mi chiama col tuo nome.
Mi premo le orecchie per non sentirne il rumore
e ricomincio a cercarti rabbioso come una bestia.
Mi passa accanto qualcuno, mi volto, da dietro sembri tu:
“Anna è tornata. Anna è cambiata.”
Calpesto forte la strada, mi inginocchio, comincio a scavare.
Le mani battono contro l’asfalto duro, impolverato,
le unghie mi sanguinano, mi rompo tutte le dita:
“Anna è partita. Anna è nascosta.”
La città ti copre, ti difende, ti chiama con la mia voce;
tu sei in fondo, sotto le pietre, il tuo nome è sepolto.
Ogni giorno cammino per le stesse strade, su di te,
cercando la buca in cui vivi, che ti protegge.
Lo stesso luogo in cui mi hai trovato, la casa
da cui sono emerso quando mi hai salutato senza cenni,
quando hai parlato per la prima volta e mi hai detto:
“Non avevo mai incontrato qualcuno con il mio stesso nome.”

6 – Alessandro Pedretta: il poeta operaio che racconta con strutturata semplicità il degrado
Era da tempo che si aspettava qualcosa di simile! Leggerlo è sconvolgente e illuminante. Il suo verseggiare è trasparente, eppure al contempo stratificato e lardellato di sottotracce, diramazioni, come il discorso di uno schizofrenico è pieno di collegamenti per chi sa leggerlo. Una sorta di ipertesto in cui si trova il connubio perfetto tra lo strazio e l’estasi morbosa per il nostro tempo. Alessandro Pedretta, col suo Dio del cemento, Mora Editrice, 2015, sconvolge tutti i parametri. Poeta e operaio al contempo, Pedretta conosce bene la cifra del contemporaneo. Pur essendo un intelletto – non un intellettuale – finissimo, egli non ha perso il contatto con la metropoli in cui vive, si muove, e lavora. Sicché la descrive e la racconta, essendone parte per il grosso della giornata (Nelle profondità del male/ ci sono milioni di lampade al tungsteno/ ed enormi fabbriche di cemento/ lunghissimi e tetri corridoi/ operai che urlano impazziti/ tra nugoli di libellule morte/ mentre l’agghiacciante sirena per il pranzo/ canta stupida e gravida di rabbia). Egli è il poeta dei non luoghi (Vorrei vivere in un vecchio macello/ con le grida delle bestie incubate nei muri), dell’inferno delle periferie e delle case popolari (i palazzi hanno diagonali imperfette/ le autostrade si incuneano con dolore nel petto/ hanno scoperto un difetto anche nel sole/ ci sono anche cadaveri/ dentro ogni bambino/ si dice che viviamo in un inferno scaduto). C’è molto dolore in queste liriche (Il cielo cupo non regala compassione/ forse solo xanax e graffi sulle braccia/ a colazione), un dolore che è l’antico patimento dell’uomo che ha da esistere (raggelante è l’attimo in cui/ non sei più tu/ ma grappoli di attimi repressi/ ed emozioni a venire). Ma è soprattutto la vita dell’uomo d’oggi quella che più travaglia il poeta (dilapidata è l’energia dei nostri occhi/ nelle sequenze addomesticate del quotidiano) e lo porta al disgusto (Mi fai schifo uomo/ adagiato sul sofà/ o comunque sempre in fregola/ d’altronde devi scopare, proporti/ pettinarti, mangiare cozze/ […] prolisso e scaduto/ scafato, schifato, straziato/ gesùcristizzato nel golgota del superfluo). Eppure è stupefacente come il distacco da poeta (E non ditemi che anche voi/ all’avvicinarsi della sera/ quando il sole cala/ o la mattina con l’aria più limpida/ un poco non vi viene da piangere/ quando la mente spurga/ un tot di orrore) non si tramuti mai in una superiorità aristocratica tipica di tutta la nostra intellighenzia italica. Al contrario, Pedretta è talmente calato in questa realtà senza uscita, senza la possibilità di un ritorno verso una tranquilla e rispettabile realtà borghese di appartenenza, che in ultimo la sua contemplazione straziante quasi assume i connotati di un’estatica visione, un piacere infame dello sfacelo:
Dio del cemento catturami negli anfratti
tra i solai dimenticati di case in rovina
percuotimi lungo i binari che sfilano verso sud
nella cancrena quotidiana di un seme gettato a caso
incastrati nelle selve di metallo di sua maestà il progresso
avvitati negli interstizi di palazzi in gonorrea
sia mai che questa terra possa esser mia
sia mai che decanteremo qualche ode in vece tua
Dio del cemento conducimi all’immobilità del pensiero
tra caterve frastornanti di quesiti sovrapposti
e la giungla di proteine assestate tra i cartelloni
seguendo in parallelo la malattia tra le mangrovie
il sesso a pagamento nei canali abbandonati
e la droga germinante che trasuda come miele
tra le geometrie d’alveare di condomini caracollanti
sia mai che questa aria possa respirar con me
sia mai che il tuo pensiero di riflesso assomigli al suo
Dio del cemento diamoci un abbraccio
e baciamoci le mani al cospetto delle devianze
delle rovine che comunque sono gli specchi del nostro osare
della tristezza, dell’abbandono, di una suggestiva e sempre viva
e fantastica utopia.
