Il ricordo di Piero Ottone è legato a una delle età più grigie del giornalismo e della storia italiana: gli anni di piombo e dell’“eschimo in redazione”. Sarebbe sbagliato tacere, in nome della logica un po’ ipocrita del “de mortuis nisi bene”, gli aspetti decisamente infelici della sua direzione del “Corriere”, a partire dal licenziamento di Montanelli: un errore, prima ancora che un delitto, come si potrebbe definirlo parafrasando il giudizio di Talleyrand a proposito della fucilazione del duca d’Enghien. Al tempo stesso non sarebbe onesto disconoscere alcune sue scelte coraggiose, come l’apertura della prima pagina del quotidiano di via Solferino alle provocazioni corsare di Pier Paolo Pasolini. È vero che a trattare l’acquisizione della firma fu in prima persona il vicedirettore Gaspare Barbiellini Amidei, figlio di un eroe fascista di guerra, pervenuto al “Corriere” dopo essere stato caporedattore del “Secolo d’Italia”; ma la responsabilità ultima delle scelte è sempre del direttore, che in quel caso dovette fare i conti con le riserve della proprietà.
Cinque anni, però, possono essere molti, alla guida del più importante quotidiano nazionale, ma non esauriscono una vita, soprattutto per chi ha avuto la fortuna di superare i novanta. E la vita di Piero Ottone ha conosciuto molte stagioni e molte vocazioni: del direttore di quotidiani, dell’editorialista, persino del velista appassionato, ma anche del commentatore di costume e dell’interprete partecipe e dolente della crisi della civiltà occidentale.
Appena diciottenne, Ottone, che non aveva assunto il più orecchiabile cognome materno e si chiamava ancora Mignanego, lesse per intero, in lingua originale (la prima traduzione italiana risale al 1957) Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, su consiglio di una ragazza tedesca. Gli furono necessari due mesi, viste la difficoltà e la mole dell’opera, ma quella lettura segnò la sua vita. L’idea che le civiltà non siano eterne, che la cultura occidentale sia destinata all’eclissi non l’abbandonò più, anche negli anni in cui una sinistra che citava György Lukács come vangelo liquidava la filosofia della storia spengleriana come una delle tante forme della “distruzione della ragione”. E nel 1994 Ottone, ormai in età di bilanci, pubblicava un saggio, intitolato Il tramonto della nostra civiltà (Mondadori) e ispirato alla “morfologia della storia universale” proposta dal pensatore tedesco. È un libro che sarebbe forse interessante rileggere, o semplicemente leggere, anche per alcune intuizioni che, a più di vent’anni di distanza, colpiscono per la loro lucidità. Come quando, commentando la categoria del “cesarismo”, con cui Spengler aveva previsto negli anni Venti l’affermazione di capi carismatici, Ottone scriveva: “Oggi, l’ipotesi del cesarismo nei paesi avanzati dell’Occidente appare assurda. Ma acquisterebbe consistenza se la pressione del terzo mondo, in un modo o nell’altro, sconvolgesse gli equilibri, creasse situazioni pericolose.”
Nel 1994 era un’ipotesi, oggi potrebbe risultare una profezia.