Sono settimane che conti le pecore. Senza neanche riuscire a dormire.
Tutto ad un tratto ci sono tantissime pecore nella tua vita. Sarà che è Pasqua e perfino Berlusconi dà il latte all’agnellino.
Oppure no, forse la questione principale è che sei stato a Cascia a vedere Sa paradura. E lì di pecore ne hai viste mille. Le hanno portate Gigi Sanna, la Coldiretti, gli Istentales e gli amici sardi per regalarle agli allevatori terremotati.
Solidarietà arcaica del mondo pastorale, di quando non c’erano ancora le assicurazioni e i decreti legge.
E poi sei stato a Piedimonte, sulle tue montagne di casa a prendere il primo sale dalla pastora di Cesi e hai rivisto la casa scalcinata e disordinata, il gregge, i maremmani, le galline sull’aia, il montone. E hai risentito gli odori di cinquant’anni fa nei casolari della campagna umbra, gustando un cucchiaio di ricotta calda.
Ah, poi ci deve essere anche il fatto che sul comodino hai il Serpente di stelle di Jean Giono, un racconto di pecore e pastori provenzali. “Siamo qui, noi, i capi di bestie!” – urla sull’altipiano di Mallefougasse il Sardo (sempre sardi ci sono quando si parla di pecore). “Siamo qui, noi, i primi degli uomini! C’è chi ha serbato la purezza di cuore. Siamo qui. Senti il nostro peso? Senti che noi pesiamo più degli altri?
Sono qui gli uomini che vedono i due lati dell’albero e l’interno della pietra, quelli che camminano nel pensiero della bestia come nei grandi prati del Dévoluy sopra erbe familiari. Sono qui, coloro che hanno saltato la barriera”. Coloro che hanno saltato la barriera! I pastori! Ma pensa un po’!
E poi, accanto al Serpente di stelle, hai anche Il pastore d’Islanda di Gunnar Gunnarsson, con due pecore dal vello lunghissimo in copertina e, dentro, una storia pazzesca di un uomo qualunque, alla ricerca di un senso, che ogni anno, per ventisette anni, se ne va – da solo – anzi no con un montone ed un cane, sulle montagne dell’isola ghiacciata, sfidando tormente e tempeste, rischiando la vita, solo per ritrovare e riportare a casa qualche pecora smarrita mentre le greggi rientravano nelle fattorie a svernare.
Ma cosa avranno queste pecore di tanto importante? Questi animali docili e dallo sguardo vago, ai quali si sottraggono gli agnelli e si toglie il latte. Questi animali che si sacrificano per noi e che si fanno pecunia, dal momento che per i nostri antenati la ricchezza dipendeva dagli armenti?
Poi ricordi di aver letto qualcos’altro sulle pecore. Rumiz, Paolo Rumiz ha scritto pochi giorni fa su La Repubblica un bellissimo reportage, camminando nelle aree del cratere del grande terremoto del Centro Italia.
Le ultime riflessioni le ha fatte prima di addormentarsi in una yurta, una tenda nomade di tradizione mongola, montata vicino a Macereto, sopra Visso. “Sento che Roma vista da qui – dice Rumiz – non è all’origine di questi luoghi, ma al contrario, Roma è figlia dei transumanti d’Appennino (…)”. “Forse, penso, siamo tutti figli di quel mondo”.
E da questo mondo – conclude Rumiz – arriva oggi un ammonimento al Paese: “Basta cemento, basta grandi alberghi, basta autostrade. Ripensare lo sviluppo. Tornare all’arcano dei luoghi, alla sapienza delle radici pastorali”.
Già le radici pastorali d’Appennino, di Sardegna, di Provenza, d’Islanda. E hai capito che contare le pecore non fa dormire. Anzi, fa pensare.
Così per Pasqua, prima di salvare un agnello, salviamo un pastore! #salvaunpastore