Parigi, anni ’50, c’è nell’aria atmosfera da grandi pulizie primaverili. Sotto al tappeto delle auree Lettere Francesi finiscono i cosiddetti Collabos, eterogenea categoria di scrittori, in vario modo giudicati colpevoli d’intelligenza col nemico (tedesco, va da sé). Eccoli lì gli impresentabili, braccati in fumose foto ricordo, messi in fila a favore d’onta e senza troppi distinguo dal burocratico Comitato Nazionale degli Scrittori, ovvero l’organo epurante preposto: il suicida “per troppo stile” Drieu La Rochelle, l’emigrato in Danimarca con gatto cane e ballerina, per salvare la pellaccia, Louis-Ferdinand Céline, il condannato a morte Robert Brasillach, apologeta della giovinezza; ai quali vanno aggiunti, tra altri minori, il convintamente nazionalsocialista Alphonse de Châteaubriant, il pan-europeista Lucien Rebatet, il tormentato decadentista Henri de Montherlant e quel gaglioffo di Maurice Sachs, omossessuale avventuriero, spia tedesca, certo più attiguo a Jean Genet che ai filomonarchici vandeani. Dalla parte del giusto, a far salotto rancoroso sulle vite dei “fratelli d’inchiostro”, il sodalizio esistenzialista, capeggiato da quel trombone di Jean Paul Sartre: Louis Aragon, Paul Eluard, André Malraux, Simone de Beauvoir, ma anche gli eccelsi Albert Camus e Raymond Queneau. Giudicati e giudici un tempo amici, dunque; tutta bella gente acculturata ed elegante, che il pernod l’aveva bevuto dalla stessa bottiglia, solo pochi anni prima. Qualcuno può forse sostenere che l’opera letteraria di Drieu sia inferiore a quella di Camus? O che I sette colori di Brasillach non fu un piccolo capolavoro di sperimentazione narrativa? Per non parlare di Céline, al quale il diffamatore Sartre non era nemmeno degno di svuotare il vaso da notte. L’accecamento politico divenne ancora una volta mannaia.
Poi Marcel Jouhandeau e Abel Bonnard, entrambi omosessuali (‘sti francesi…) – l’uno antisemita cattolico, l’altro accademico filogermanico – ma soprattutto Paul Morand, figura chiave per comprendere il passaggio di consegne, quell’eredità letteraria percepita come un maledetto fardello per le illuminate sorti della nuova Francia, libera e progressista. Morand – conservatore fatto e finito, in gioventù intimo di Proust –, letterato assai stimato e già “classico” in vita, diplomatico poi caduto in disgrazia per l’adesione a Vichy, ci porta direttamente al movimento degli Ussari, così definito dalla stampa dell’epoca con chiare intenzioni denigratorie. Scrissero: sepolcri imbiancati del rosso cuore con la croce, vecchi arnesi monarchici, cariatidi della reazione, nazionalisti revanchisti, residuati fascisti. A dettar legge, infatti, è il progressismo à la page della rivista Les Temps Modernes, l’apogeo di tutto quanto, in seguito, verrà definito radical-chic e gauche caviar. Ebbene, proprio in quel contesto avverso, emerge la figura straordinaria di Roger Nimier, l’ussaro fuori tempo massimo, il giovane ribelle anticonformista devoto a Bernanos, l’autentico James Dean dell’intricata scena intellettuale transalpina. Il bello della Francia è forse proprio quella capricciosa legge di polarità (gli opposti si attraggono, i simili si respingono, nel mezzo non c’è divertimento) sulla scacchiera del pensiero, speciale caratteristica in grado di conferire fascino anche – talvolta soprattutto – alla parte reietta. Da Lautréamont a Baudelaire, da de Sade a Bataille, da Gide a Cocteau e, perché no? Pure al giovane bastian contrario Nimier. Potevano restare a lungo tra i proscritti o a poltrire nel rimpianto, gli esteti della reazione? Giammai.
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Monarchico per vezzo, Roger Nimier – un altro che non fece in tempo a perdere la guerra pur provandoci, riuscendo però a conservare lo stile spavaldo, la temerarietà elegante di chi ha qualcosa in contrario da dire (e sa bene come dirlo) – è l’uomo giusto al posto giusto, il guastafeste giunto nel momento propizio, ovvero in tempo per corrispondere affilata antipatia ai monopolisti della cultura, divanati con supponenza a manca della Senna. Certamente affetto da innata raffinatezza, più snob degli snob omologati di sinistra, polemico e vitalista, è ben lontano da quel frignare vittimista e giaculatorio, tipico di troppi intellettuali di destra, sempre lì chini sul bilancino a pesare i torti subiti. Dotato di notevole estro e velocità di scrittura, si distingue in società per il vivace dandismo: Jaguar e Aston Martin in garage, champagne e sigarette con bionde femmine, guardaroba d’alta sartoria, boxe e rugby come azione, da affiancare al pensiero. Escono a spron battuto i coraggiosi romanzi Les Épées, Le Hussard bleu, Les Enfants tristes, accolti da crescente attenzione, ma Nimier non cede alla tentazione di facile celebrità e decide di chiudere con la letteratura per dieci anni. Saggia mossa spiazzante, che gli permette di occuparsi d’altro. Affila le lame della critica sulle riviste più importanti, scalpita indomito contro la pedanteria “democratica” degli esistenzialisti, contro quel lobbismo moralista asfissiante, teso a perpetuare la manichea separazione tra buoni e cattivi, a tutto vantaggio dei primi. In qualità di direttore editoriale di Gallimard, s’adopera senza posa affinché venga restituita ufficialmente dignità a figure immense come Céline e Drieu. Sembra proprio un personaggio dei suoi libri, furoreggia sicuro di sé, detestato da molti ed invidiato dai più. Vita e arte si mescolano in destino baluginante. Paura di nulla.
Decisamente avvincente anche il rapporto con la scrittura cinematografica, che vede Nimier al fianco di Michelangelo Antonioni e, soprattutto, di Louis Malle. L’amicizia e la comunanza di gusti con quest’ultimo, altro genio tormentato, si concretizza nella stesura del capolavoro Ascensore per il patibolo (1958), con l’inarrivabile coppia Maurice Ronet – Jeanne Moreau a favore di cinepresa. Nel 1963 si concretizza un sogno postumo per Nimier, che coinvolge ancora Ronet e Moreau, sempre diretti da Malle per Fuoco Fatuo, pellicola d’assoluta bellezza tratta dall’omonimo romanzo di Pierre Drieu La Rochelle. C’è tutto, in quell’intenso bianco e nero: eleganza, disillusione, Parigi come mai più sarà, lussi e vizi da scontare in nichilismo, estreme conseguenze affrontate in camicia ben stirata, sullo sfondo i fatti d’Algeria e un caleidoscopio di pose borghesi da rigettare. Incomprensioni insanabili, giacché gli esseri umani – fortunatamente – non sono tutti uguali. Proprio l’autore di Gilles, diventa emblematico segno del precoce epilogo: la stella brillante di Nimier si spegne a 37 anni nel settembre del 1962 – tra le lamiere affilate dell’Aston Martin – schiantandosi contro un muro ad alta velocità. Per altro senza aver visto il film più bello. S’immagina possa essere l’unico rimpianto, oltre a quel dettaglio di non essere riuscito a perdere la guerra, nei sobborghi di Berlino. Troppo giovane comunque.