Signor de Benoist, porre sotto accusa la “dittatura dei sondaggi” è ormai un luogo comune, tanto più che il loro numero cresce continuamente. Ma sempre più spesso il candidato vincente all’elezione non è quasi mai quello che era dato per favorito alla vittoria. Quindi, si tratta di una “dittatura” molto relativa?
“Da quando sono apparsi negli Usa, verso la metà degli anni Trenta, e in Francia nel 1965, per iniziativa di Jean Stoetzel le critiche nei confronti dei sondaggi sono sempre le stesse. Una fra le più comuni è quella che lei cita, cioè ai sondaggi capita di sbagliare. Si è visto nell’elezione presidenziale a suo tempo con l’elezione presidenziale del 1995 (Balladur era considerato vincente rispetto a Chirac) o con quella del 2002 (Chirac avrebbe dovuto affrontare Jospin al secondo turno), più di recente con la Brexit o con l’elezione di Trump. Si deve anche osservare che succede che non sbaglino e che questo sia il caso più frequente. Molto spesso i sondaggi dicono la verità, anche se possono essere manipolati, o perché le domande sono distorte o perché le risposte vengono interpretate in maniera tendenziosa. Un’altra vecchia critica riguarda gli effetti politici dei sondaggi. Molti affermano che facendo conoscere l’opinione del pubblico all’opinione pubblica, la si trasformi. E’ l’aspetto performativo dei sondaggi: renderebbero vero quello che annunciano e così “fabbricherebbero” lo scrutinio, poiché alcuni dei personaggi sottoposti a sindaggio sposterebbero il proprio voto verso il vincitore del sondaggio precedente. Ma si può notare che questa critica è in contraddizione con quella prima citata: se i sondaggi “fabbricano” i risultati, non si comprende come possano sbagliarsi e se si sbagliano significa che non li fabbricano. In realtà, la pubblicazione dei sondaggi può amplificare la mobilitazione a favore di chi è in testa così come suscitare l’atteggiamneto opposto”.
Ma come funzionano davvero i sondaggi?
“La maggior parte degli istituti di sondaggi ormai hanno abbandonato il cosiddetto metodo aleatorio (si sorteggiano le persone da intervistare per il sondaggio) per aderire al metodo delle quote, fondato su campioni di popolazioni considerati rappresentativi. Si ritiene che i risultati saranno tanto più affidabili quanto maggiore sarà il numero delle persone intervistate. Di fatto, si ritiene che un sondaggio effettuato su mille o duemila persone ben scelte dia dati che possono essere estrapolati dall’insieme della popolazione. Alcuni correttivi detti “di raddrizzamento” hanno lo scopo di assegnare peso a categorie sottorappresentate nel campione utilizzato o a compensare il fenomeno dell’elettore “che si vergogna” (colui il quale non intende dire ai sondaggisti quali sono le sue preferenze vere). Questi metodi statistici sono in genere affidabili. Tuttavia, anche quando il campione è rappresentativo, vi è sempre una quota di errore che oscilla dal 2 al 3 per cento. Quando questo margine è uguale o superiore allo scarto che separa i favoriti (accade molto spesso), i sondaggi non indicano più nulla: è matematicamente falso, a esempio, sostenere che un candidato prevarrà sull’altro per 51 per cento a 49 per cento. La verità è che non si sa. Nel migliore dei casi, un sondaggio mostra soltanto la fotografia di un rapporto di forze o di uno stato dell’opinione in un dato momento: a esempio, il risultato delle elezioni se si tenessero in quel giorno. Una fotografia che non è affatto una predizione. Anzi, è tanto più lontana dal risultato finale quanto più è effettuata in largo anticipo sullo scrutinio, prima di tutto perché le intenzioni di voto possono cambiare, poi perché più si è lontani dalle elezioni maggiore è il numero di “non risposte”. E’ un grosso errore assimilare chi non ha ancora fatto la propria scelta con un futuro astensionista, perché c’è anche un’evoluzione del livello di mobilitazione elettorale. Inoltre, per preciso che sia, un sondaggio non equivarrà mai a un’elezione – e non la potrà mai sostituire – perché l’elezione implica un comportamento pubblico mentre i sondaggisti raccolgono soltanto opinioni private. L’ha notato già oltre vent’anni fa Jean-Pierre Dupuy: “Il discorso sulla scientificità dei sondaggi lascia intedere che il voto sia una procedura razionale. Crederlo significa sbagliare genere. L’elezione è un immenso rituale, carico di sacralità, cosa che i sondaggi non potranno mai essere”.
E’ chiaro che la sfera mediatica ha a lungo partecipato alla costruzione dell’opinione pubblica, ma lo si è detto anche dei sondaggi. Qual è il loro ruolo in relazione all’opinione pubblica?
“L’opinione pubblica, per molti versi è un fantasma. Ci si ricorda del famoso articolo di Pierre Bourdieu L’opinione pubblica non esiste, pubblicato in Les temps modernes. Non si deve perdere di vista il fatto che i sondaggi ricorrono a due tipi differenti di domande che non vanno confuse fra loro. Alcune riguardano opinioni, altre mirano a individuare intenzioni di comportamento. Le seconde hanno un valore predittivo molto debole sia perché le persone si trovano a rispondere a domande che non si aspettavano, sia perché c’è sempre un margine fra gli atteggiamenti e i comportamenti. I sondaggi d’opinione sono altrettanto problematici nella misura in cui cercano di mettere in luce eventuali giudizi, valori o rappresentazioni che sono per definizione cangianti. Indicano per definizione come si ripartiscono le scelte, non quello che pensa la gente. Del resto come potrebbe essere misurata e definita l’”opinione pubblica” sulla sola base di un insieme di opinioni individuali private? Una collettività è sempre più della somma delle sue parti. Limitandosi a mettere insieme risposte individuali è alta la probabilità di fornire una rappresentazione dell’opinione pubblica che non corrisponde a un’espressione collettiva organizzata”. (traduzione di Manlio Triggiani)