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Focus (di F.Cardini). La conferenza di pace sulla Siria di Astana e il MO in fiamme

by Franco Cardini
21 Febbraio 2017
in Esteri
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Una cartina del Medio Oriente
Una cartina del Medio Oriente

Luci ed ombre, speranze e preoccupazioni per l’eterna questione vicino-orientale. Difficile azzardare pronostici (tantomeno profezie), arduo seguire l’incalzare dei fatti e districarsi tra falsità, reticenze e silenzi.

E’ tanto per cominciare passato sotto quasi generale silenzio un fatto importantissimo: fra il 23 e il 24 gennaio scorso, ad Astana capitale del Kazakistan, si è tenuta una conferenza di pace sulla Siria promotori e protagonisti della quale sono stati gli inviati ufficiali di Russia, Turchia e Iran (russi e persiani, alleati fra loro, sono tradizionalmente nemici della Turchia almeno da trecento anni, dai tempi di Pietro il Grande…). Ad Astana si è cercato di avviare concretamente il processo di pace dopo la risoluzione ONU n. 2336 del 31 dicembre 2016, riguardante il “cessate il fuoco” ma restata – per cambiare… – lettera morta. La cosa più notevole è che ad Astana, insieme ai rappresentanti delle tre potenze che si fa fatica a considerare semplicemente “regionali”, c’erano anche esponenti di almeno alcune tra le varie componenti della complessa guerra civile siriana: i rappresentanti del governo di Damasco guidati dall’ambasciatore siriano presso l’ONU, quelli dell’opposizione “moderata” della “Coalizione Nazionale Siriana” che ha il suo centro in Istanbul guidati da Mohammed Allouche (capo del movimento salafita Jaysh al-Islam, collegato all’Arabia saudita) e che è vicino ai Fratelli Musulmani, a loro volta influenti nell’AKP, il partito al potere in Turchia.

Il fatto è tuttavia che in Siria, a parte il Daesh, sono presenti altri protagonisti armati, in qualche modo a quel che pare legati ad Arabia Saudita e a Qatar: due potenze della penisola arabica considerate sicure alleate degli USA. Non erano presenti neppure inviati né a quel che risulta osservatori né statunitensi né europei. Nessun governo “occidentale” ha giustificato la sua assenza e il suo silenzio; nessuno si è curato d’informare la rispettiva opinione pubblica dell’occasione che la pace stava avendo ad Astana. D’altronde, l’assenza e il silenzio sia degli USA, sia della UE, si spiegano facilmente. Gli europei, purtroppo, non sanno che cosa fare e non hanno intenzione di far nulla. Fino a ieri, si nascondevano dietro al dogma della loro ferma adesione alla NATO, il che vuol dire che lasciavano fare agli americani accontentandosi di un ruolo docilmente esecutivo: ricordate le dichiarazioni di Angela Merkel all’inizio del luglio scorso, in coincidenza con la preparazione del vertice NATO di Varsavia? Era la NATO che manovrava pericolosamente ai confini russo-ucraini, e lo sapevano tutti. Al vertice NATO di Varsavia, alla Merkel fece regolarmente eco la buona signora Federica Mogherini, Insomma, acritico e aprioristico partenariato globale UAS-UE-NATO, “senza se e senza ma”: difesa di Polonia, paesi baltici e Ucraina dalla minaccia russa, senza badare al fatto che allo stato attuale delle cose il meno che si potrebbe dire è che la minaccia è reciproca e che chi stia violando i fatidici accordi di Minsk è tutt’altro che  evidente (ma che gli ucraini vogliano riprendersi i territori del Donbas, e che ciò violi gli accordi obiettivi di Minsk, è un fatto). I giornali di sei mesi fa (ricordiamolo ai distratti e agli smemorati) insistevano sul “nuovo ruolo della NATO” come “strumento condiviso di sicurezza contro altre minacce” (rispetto a quella russa, che non si poteva decentemente definire nonostante tutto come tale): tali minacce sarebbero state il terrorismo, i rifugiati, la crisi mediorientale. Certo, l’ipotesi di un intervento NATO in tali àmbiti senza chiare prospettive né politiche né militari poteva in effetti apparire alquanto temibile; ma un non-intervento era suscettibile di mettere in causa le ragioni e gli scopi  di tale organizzazione,formalmente scomodo e costoso residuo della “guerra fredda” di qualche decennio fa. Ora però tutto è ulteriormente complicato: e se l’America di Trump volesse scaricare la NATO oppure – in alternativa – congelarne la partecipazione di alcuni membri la partecipazione dei quali all’alleanza è inadeguata, come ha lasciato intendere il neopresidente, come ci troveremmo? E come fare con la Turchia, membro NATO che però attualmente flirta con Russia e Iran? Qualcuno ha pensato che l’inquietante boutade di Trump, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele (che sarebbe uno schiaffo senza precedenti alla pur semi-impotente ONU e alle sue reiterate risoluzioni) costituisca in realtà una controparte offerta al governo israeliano in cambio del disimpegno USA in Siria e con la NATO. Il fatto è che, intanto, i nuovi insediamenti di coloni da parte d’Israele in quel che resta (ormai quasi più nulla) del territorio palestinese rischiano di allontanare ancora una volta il peraltro improbabile traguardo di una soluzione del problema israelo-palestinese. D’altronde, non va dimenticato che al tavolo della conferenza di Astana, a parte gli assenti, c’erano invece alcuni  Convitati di Pietra: prima di tutto la questione curda. I curdi si sono impegnati in primissima linea contro il Daesh: ma il loro scopo è un’indipendenza e magari un’unità che sognano dalla fine della prima guerra mondiale  e che è stata loro sempre negata. A tale sogno si oppone con forza la Turchia: ma né Iran, né Iraq, né Siria paiono granché disponibili al riguardo.

Tutti abbiamo ammirato il coraggio dei Peshmerga e delle soldatesse curde: ma in pratica? Erbil, capitale del Kurdistan irakeno, versa ancora in una situazione insostenibile che tutti gli organismi internazionali ben conoscono  e che molte ONG hanno denunziato (salvo poi complicare le cose con le loro iniziative l’una scollegata rispetto alle altre). A Erbil ci sono ancora quasi 250.000  profughi dalla Siria, che si aggiungono al quasi un milione proveniente da altre regioni dell’Iraq, fra i quali molti sono i cristiani e gli yazidi (pare che in tutto l’Iraq gli sfollati interni a causa della guerar tocchino i tre milioni). L’agenzia ONU incaricata di assistere i rifugiati in tutto il mondo ne ha contati globalmente 65 milioni: di essi, l’86% è ospitato nei paesi di quello che una volta si chiamava “Terzo Mondo”, e solo il 10% (una fortunata élite…), vale a dire sei milioni e mezzo, ne arriva in Europa dove in tanti gridano alla nuova invasione barbarica (i poveracci che sopportano quasi il 90% dell’ondata, invece, non gridano: non ne hanno la voce…). Erbil, appena qualche mese fa salutata dagli osservatori occidentale come una specie di paradiso di organizzazione e di benessere, oggi è diventata una città che brulica di mendicanti e di gente che si arrangia organizzando poverissimi commerci clandestini di generi di prima necessità.

Oggi, intanto, il governo ufficiale irakeno – incapace di fronteggiare questa crisi – ha comunicato l’avvìo dell’ennesimo “attacco risolutivo” scopo del quale sarebbe la liberazione di Mosul, occupata dal Daesh (che ormai disporrebbe di appena 30.000 armati effettivi) già da tre anni. Se si vuole liberare Mosul, ormai, bisognerà farle subire la stessa via crucis di Aleppo, cioè i combattimenti casa per casa, dal momento che il Daesh ha avuto tutto il tempo di organizzare e radicare le proprie difese.

Né questo basta ancora. In Afghanistan, ormai dagli Anni Settanta-Ottanta è in corso una lunga “guerra dimenticata”, che si è affacciata alla ribalta internazionale solo durante l’aggressione organizzata da Bush nel 2001. I bombardamenti e i morti inutili sono faccenda quotidiana: solo nei primi sei mesi del 2016, 1601 morti e 3565 feriti  secondo l’UNICEF (siamo in attesa dei dati per il secondo semestre).

Questo sarebbe il quadro delle guerre “a bassa intensità”. Ad maiora (et peiora).

@barbadilloit

Franco Cardini

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