Storie di tragedie, di martiri, di esuli. Di verità seppellite, di assordanti grida soffocate. Il 10 febbraio – divenuto ufficialmente “Giorno del ricordo per i martiri delle foibe” solo nel 2004 – porta con sé pagine scomode ancora oggi troppo poco chiare e troppo poco raccontate, drammatiche come l’odio etnico, le torture, le morti e il disumano esodo istriano-giuliano-dalmata.
Barbadillo.it ha intervistato il Professor Gianni Oliva, emblema di onestà intellettuale, giornalista e storico del Novecento (e dei suoi avvenimenti meno indagati: celebri i suoi saggi sulle foibe, sui due conflitti mondiali e i loro aspetti più taciuti, sulla dinastia sabauda e quella borbonica), già membro del PCI e preside dei licei classici torinesi “Alfieri” e “D’Azeglio”, presto in uscita con il suo ultimo libro “Combattere! Storia dei corpi speciali”.
Professore, anche quest’anno arriva il 10 febbraio, tra polemiche e riflessioni sulla memoria. Quanto è importante ricordare e perché?
“È importante ricordare sempre. Tutto ciò che viviamo nel presente è figlio di ieri. E oggi c’è un’urgenza maggiore: la società ha troppa fretta, brucia il presente e quindi la memoria. È inquietante che in un iPhone ci possa essere tutto il sapere necessario, c’è il rischio di non avere più il valore del tempo. Di questi tempi tutti i miti svaniscono. In più, l’avvenimento delle foibe – a differenza della Resistenza – non è stato di memoria collettiva e non lo è realmente neanche ora. Ben venga ogni ricorrenza, ma serve andare oltre questa dimensione rituale e parlarne per tutto l’anno”.
Ancora oggi, tra oltranzismi e giustificazionismi, qualcuno sembra rifiutarsi di ricordare.
“No, non credo che oggi ci sia il rifiuto, eccezion fatta per i negazionismi fuori dal mondo e dalla storia. Manca solo la memoria. Per decenni c’è stata una damnatio memoriae politica, non solo da sinistra. C’era un vero silenzio di Stato. Quando nel 2001 ho pubblicato il mio primo libro sulle foibe, ci furono molte reazioni negative proprio sull’Unità – il giornale del mio partito -, mentre fui accolto bene dal Corriere. Così fu anche per il Presidente della Camera Violante, che fu criticato quando nel 1996 visitò le foibe con Fini, sdoganando il tema. Il limite di ora, invece, è che non se ne parla più di tanto. Qualcuno, per esempio, si è accorto del centenario della Prima guerra mondiale? La Grande Guerra è stata la prima volta in cui gli Italiani si sono sentiti partecipi di un unico destino, di un’unica cittadinanza. È stata la prima volta in cui tutti hanno parlato l’italiano, non è stato solo morte, ma irredentismo, modernità (si pensi a tutto ciò che è stato inventato in quel periodo e che fa parte della nostra quotidianità). Nonostante ciò, nessuno se ne ricorda. La verità è che il silenzio di oggi non è più il silenzio politico-ideologico che c’è stato dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta. Oggi c’è il silenzio dell’indifferenza”.
Quanto è pericoloso questo “silenzio dell’indifferenza”?
“Questo “silenzio dell’indifferenza” è dato dalla fretta di guardare al futuro e dall’egoismo del particulare. Ci dimentichiamo troppo facilmente che siamo figli di un’esperienza collettiva. Non possiamo trascurare la Storia. Pensiamo al terrorismo: ci sono memorie autoassolutorie ma non c’è un libro di divulgazione. Com’è possibile? Quando ero preside al D’Azeglio, in occasione dei 35 anni dall’omicidio di Casalegno, mi chiesero di far partecipare una delegazione di studenti: dovettero documentarsi sul caso Casalegno (non ne sapevano nulla), eppure sapevano chi fosse Renato Curcio. Non è tollerabile uno Stato che ricorda il criminale ma non conosce le vittime…”
Cosa fare per ricordare sul serio, allora?
“Prima di tutto valorizzare la Giornata del Ricordo del 10 febbraio, esattamente come gli altri giorni della memoria. Il 2 giugno si è parlato più della Raggi che della Costituzione! È necessaria poi una scuola che sia più attenta alla Storia, che sappia risalire al passato partendo dal presente, non basta una celebrazione isolata. E soprattutto è fondamentale il ruolo della TV. Qualche giorno fa ero al Liceo Aristofane di Roma e ho parlato per tre ore, ma per avere mezz’ora in televisione ce ne vuole. E bisogna superare i programmi di nicchia. Quando nel 2005, in occasione della prima Giornata del Ricordo, la Rai trasmise “Il cuore nel pozzo”, versione discutibile e romanzata della tragedia ma molto efficace, dieci milioni di spettatori conobbero più da vicino le foibe, che fino ad allora erano state un termine sinistro e indefinito. La TV deve educare, proporre qualcosa di fruibile e appetibile”.
È anche vero che l’era delle “post-verità” si serve proprio delle televisioni e del web. Come si fa a resistere e a conoscere nella giungla delle fake news?
“Il problema odierno è che circolano troppe informazioni e non abbiamo tempo di trasformarle in conoscenza. Forse non sappiamo ancora come usare per bene i canali d’informazione. Questo sistema di comunicazione va usato per bene, ma non deve né può essere il sostituto della conoscenza. Il libro ha un suo valore ineguagliabile nell’approccio del sapere, serve sempre un approccio emotivo, soprattutto per argomenti come le foibe. Sulle foibe è doveroso raccontare ciò che è accaduto e spiegare il perché di un silenzio di cinquant’anni. Non possiamo permettere che sia il presente – che, a seconda delle esigenze, esalta o rimuove – a scrivere il passato”.
Come spiegare l’assenza di Mattarella (e Grasso) alla foiba di Bassovizza nel Giorno del ricordo?
“Mi sembra molto brutto, non si può disertare. Il Parlamento ha introdotto il Giorno del ricordo con una legge. Probabilmente non si tratta di assenze, ma di sottovalutazioni e mancanza di coordinamento”.