L’Italia che scompare, quella di fine ‘900 della guerra civile per giornalisti militanti. E arroganti. Il giuramento di Aggeo. Domenica scorsa, sull’Unità, due articoli ricordavano Aggeo Savioli, decano del quotidiano, scomparso a novant’anni. Sottolineandone determinazione e serietà, gli articoli ne tacevano il giuramento.
Giugno 1974. Su iniziativa discreta di Eugenio Cefis, allora alla testa della Montedison, Il Giornale nasce per opporsi al compromesso storico, che l’Unità invece auspica. In quel clima teso – il colpo di Stato in Cile era del settembre precedente – Aggeo Savioli chiede ai colleghi della grande stampa di sinistra e d’estrema sinistra di allora, specialmente del ramo spettacoli, un gesto simbolico: giurare che non avrebbero salutato – il verbo va preso in senso ampio – uno de Il Giornale. Le esistenze dei giornalisti presi di mira proseguirono inalterate. Incrociare per strada i (con)giurati era infatti improbabile. Morale: alla gran parte dei redattori de Il Giornale, che lavoravano nella redazione di piazza Cavour a Milano o in quella di piazza di Pietra a Roma, uscendo solo per tornare a casa, del “giuramento di Aggeo” non giunse nemmeno notizia.
Le occasioni di contatto tra colleghi di testate diverse non erano molte neanche allora. C’erano però le conferenze stampa, soprattutto ai grandi festival del cinema. Cannes e Berlino, oltre alla Giornate del Cinema, che dal 1969 e fino al 1978 sostituivano la Mostra di Venezia. Nata per essere ampia, la sanzione di Aggeo si rivelò mirata su pochissimi. Inoltre era diversa, politicamente, dalla discriminazione tra gli “uomini e no” del romanzo di Elio Vittorini. Non colpiva infatti tanto la stampa di destra e di estrema destra; né i giornalisti che, in epoca monarchica o repubblicana, erano stati fascisti: in quella barriera si era aperto un varco fin dagli anni Cinquanta, come raccontano autobiografie professionali di Giorgio Bocca (Il provinciale, Feltrinelli; riedizione Mondadori), Giampaolo Pansa (Il revisionista, Rizzoli). No, quello del giuramento di Aggeo era l’episodio diverso di un’epoca diversa, rigurgito non di anti-fascismo, ma di anti/anti-comunismo. E aveva un precedente nel 1966: la messa al bando, da parte della stampa di sinistra ed estrema sinistra, anche cattolica, di un altro collega, Gualtiero Jacopetti, che col cinema – specie con Africa addio – aveva avuto molto, molto successo. Non a caso Jacopetti era anche una delle grandi firme de Il Giornale in epoca Montanelli.
In sostanza, a essere circondati dall’isolamento decretato da Aggeo furono quasi solo i giornalisti che Il Giornale mandava ai Festival del cinema, cioè Alfio Cantelli e Carlo Laurenzi. Nessuno dei due aveva un passato fascista, nessuno dei due esprimeva simpatie per partiti di destra. Ma erano del Giornale e tanto bastava. A mettere in un cono d’ombra i “reietti” si prestarono in molti, meno per cattiveria che per conformismo. Invece Aggeo aveva un progetto politico e credeva così di difenderlo. Un dissenziente si manifestò però subito: Tullio Kezich.
Al mio primo Festival di Cannes, quello del 1978, in un pranzo di critici non allineati (Michel Marmin di Le Figaro; Alain de Benoist di Le Figaro Magazine; Michel Mourlet di Valeurs Actuelles; Enrico Fulchignoni, funzionario dell’Unesco a Parigi, che firmava “Il demonio” sul Borghese), raccontai a Claudio Quarantotto, critico de Il Borghese, che Kezich era seduto dietro di me a una proiezione del mattino. “E’ una delle rare persone gentili che vengano ai Festival”, osservò Quarantotto. Anni dopo, passeggiando con Kezich a Trieste, dove avevo presentato i film da lui prodotti negli anni ’50 e ’60 con la “22 dicembre”, gli chiesi se i “non salutatori” non salutassero me – ormai critico cinematografico del Giornale – o non salutassero la testata. Confidandomi il giuramento di Aggeo, Kezich mi disilluse. Tutto questo casino non era stato per me. (da La Verità)