In questi ultimi giorni ho ricevuto un po’ di attacchi personali, apparsi su tutti i principali quotidiani italiani, semplicemente per avere accettato l’invito a suonare il prossimo 13 febbraio in una serata istituzionale a Milano. Fin qui nulla di strano o di troppo interessante. La solita vita. La solita rassegna stampa. La solita drammatizzazione del nulla. Per l’occasione è stato ovviamente rispolverato l’iter giudiziario relativo alle celebrazioni milanesi di qualche anno fa per Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi e Carlo Borsani. Torno brevemente sui fatti, spero pure per l’ultima volta… e non si tratta proprio di una formalità, perché in ballo non c’è esclusivamente la libertà politica e la libera espressione, ma qualcosa di più profondo, che ha a che fare con il diritto basilare di poter commemorare, celebrare, i propri cari, i propri morti. È un fatto che riguarda la spiritualità e, addirittura, la religiosità stessa di un individuo e di una comunità. Per questa ragione ho puntualizzato più volte che l’impianto accusatorio non riguarda esclusivamente il saluto romano (nel mio caso personale, poi, non mi è stato neppure contestato) ma si spinge anche alla ritualità, alla chiamata del “Presente”. Questa ragione è una linea da mantenere, un principio da difendere. Sottolineare come l’accusa riguardi anche chi non abbia fatto un saluto romano è il modo diretto per rimarcare questo principio fondamentale. Periodicamente, qualcuno mi chiede se sono pentito di quello che ho fatto… Mi vengono sempre in mente alcune categorie di uomini che si dedicano al pentimento, talvolta pubblico: chi ha la coscienza sporca e sa di avere sbagliato, chi manca del cuore che serve a tenere la barra dritta quando si viene attaccati, chi rinnega per opportunismo o per evitare ripercussioni sociali… Quello che ho fatto non mi spinge in nessuna di queste categorie. Ho celebrato, insieme ad altri italiani come me, chi meritava, e merita il ricordo. Ho fatto quello che sentivo, e sento giusto. Tutto qua. Nulla di speciale. Insomma: la solita vita, siamo fatti più o meno così. Portiamo il testimone in una nazione che dimentica. Lo passeremo a qualcuno. Nel frattempo, però, non ci saremo pentiti.