È iniziata. In realtà la tendenza era cominciata già qualche tempo fa, sui siti d’informazione russi: poteva infatti capitare che cliccando tanto “Sputnik” (l’ex “RIA Novosti”) quanto “RT” comparisse la famigerata schermata bianca con il lucchetto rosso. “La connessione non è privata. Gli autori di un attacco potrebbero cercare di rubare le tue informazioni (ad esempio password, messaggi o dati della carta di credito)”. Era cominciata dunque coi siti d’informazione russi, quelli già marchiati dai siti “d’informazione” occidentali (virgolette d’obbligo) come “non attendibili” o “di propaganda”. Quelli che il parlamento europeo aveva “deplorato” per fornire “supporto ai movimenti anti-europei”. Dunque, nessuno o quasi s’era preoccupato. Aveva protestato Giulietto Chiesa, ma la cosa era finita là.
I siti di bufale italiani
Era continuata poi coi siti di “bufale”: “Il GioMale”, “Il Fatto Quotidaino”, “24News”. E c’era chi aveva plaudito, soprattutto perché questi siti diffondevano panzane populiste (nel senso deteriore del termine) contro gli immigrati, contro la ca$ta, contro i vaccini eccetera. Erano prove generali, perfettamente riuscite.
Il tre gennaio 2017, nell’anniversario dell’inizio della dittatura fascista in Italia, scopriamo che una tendenza di ben altra pasta – e con ben altri scopi etici – è stata fondata. Anche questa annunciata da discorsi pubblici, come quelli del presidente dell’antitrust (un “garante” quindi in teoria neutrale politicamente) Pitruzzella. Oggi, se provate a linkare in un social network un contenuto sgradito alle classi dominanti, per esempio su Facebook, potreste trovarvi questa spiacevole schermata:
Naturalmente non succede sempre. Nell’età della dittatura orwelliana, esattamente come in “1984” puoi andare avanti vent’anni senza essere molestato dalla psicopolizia oppure essere arrestato, torturato e vaporizzato non appena staccato il pennino sulla carta dopo aver scritto “abbasso il Grande Fratello”. È una strategia di logoramento psicologico che permette di controllare la dissidenza meglio e in maniera meno dispendiosa in uomini e mezzi.
Stamattina Facebook è un cimitero di link non pubblicati, di pagine che danno un “possibile problema”, di captcha richiesti per accedere a questo o quel sito.
Guardacaso, tutte accomunate da un leitmotiv: sono pagine non allineate alla narrazione ufficiale. Quella pro-Europa, pro-liberismo, pro-“diritti civili”, anti-russa, anti-Assad eccetera. Quelle accusate, in una parola omnicomprensiva come “psicoreato”, di diffondere “post-verità”. Ovvero una verità alternativa alla narrazione ufficiale, alla falsa coscienza imposta dalle classi dominanti a quelle subalterne: il sito di Maurizio Blondet, per esempio o un contenuto sui combattenti anti-ISIS. Perfino il sito della rivista cui collaboro – una rivista di storia d’inchiesta, non una fabbrica di bufale sugli immigrati o sui vaccini – per la prima volta da 15 anni è stato temporaneamente inibito dall’accesso con una schermata d’allarme da Google.
Non è una vera e propria censura. È una forma di mobbing legalizzato, con il quale si scoraggia l’accesso ai visitatori occasionali o a quello che ha fretta o che ha paura di truffe o virus informatici. Non si censura, semplicemente si rende difficoltoso accedere ai contenuti. Difficoltoso ma non impossibile. La foglia di fico della “libertà d’espressione garantita” viene sempre lasciata. Puoi parlare nel vasto mare di internet, ma sempre più puoi farlo solo in una camera imbottita.
L’ondata reazionaria delle classi dominanti è iniziata. Fino a sei mesi fa parlare di “poteri forti”, di “nuovo ordine globale” o di “congiura mondialista” era derubricato a “gombloddismoh” e ridicolizzato. Dopo le legnate prese in Gran Bretagna con la Brexit e peggio ancora negli USA con la sconfitta della Clinton, hanno dovuto gettare la maschera. A reti unificate, gli esponenti delle classi dominanti hanno sparato a zero contro la “post-verità”, ovvero la possibilità che le classi subalterne possano attingere a fonti di informazione differenti da quelle autorizzate, allineate e coperte. In Europa, roccaforte della tecnocrazia, e nell’establishment americano appena ripresosi dallo choc dell’elezione di Trump, è stato un unanime coro contro il popolo che si informa e vota contro le aspettative di chi comanda. Dopo il tracollo di Renzi sul referendum, il rischio di un effetto domino su Francia e perfino Germania è diventato troppo realistico. E dunque, giù la maschera. Dagli di censura. Perfino l’alfiere della globalizzazione George Soros è uscito da dietro le quinte direttamente sul palcoscenico, sponsorizzando una organizzazione di “monitoraggio” su internet. Naturalmente tutto ciò verrà fatto per “il nostro bene”: evitare “virus informatici”, “phishing”, “truffe telematiche”, limitando i “contenuti non sicuri, vietati dalle linee guida della comunità”, linee guida inintelligibili ma sulle quali c’è un continuo invito a informarsi (o almeno, a provarci…) e che senza dubbio sono all’insegna “della missione di rendere il mondo più aperto e connesso”.
La tirannide della reazione è iniziata.