Donald Trump è President Elect da poco meno di un mese e la corsa per le nomine nel futuro gabinetto presidenziale ha avuto già inizio. Sappiamo che Reince Priebus sarà Capo dello Staff alla Casa Bianca, che il senatore junior dell’Alabama Jeff Sessions ricoprirà il ruolo di Attorney General, vale a dire ministro della Giustizia, che Nikki Haley sarà ambasciatore presso l’ONU, che Steven Mnuchin avrà la Segreteria del Tesoro e altri ancora. Rimangono ancora in palio ministeri importanti quali la Segreteria di Stato e la Homeland Security. Per la prima si vocifera di Mitt Romney o del generale Petraeus, c’è chi addirittura propone Rand Paul, per la seconda si era fatto il nome del famigerato sceriffo di Milwaukee, David Clarke. Tuttavia ancora poco è stato detto in merito a quella che sarà una delle nomine centrali della presidenza Trump, quella la cui influenza forse si farà sentire per un arco di tempo maggiore: la nomina del nono giudice della Corte Suprema.
La nomina del candidato proposto dalla presidenza Obama in seguito alla scomparsa dell’Associate Justice Antonin Scalia lo scorso inverno, Merrick Garland, Chief Judge della Coorte d’Appello degli Stati Uniti per il distretto di Columbia, è rimasta pressoché lettera morta dinnanzi ad un Congresso a maggioranza repubblicana che ha rifiutato di ratificarla. Spetterà dunque a Trump proporre i propri candidati dinnanzi al Senato. Quali sono i nomi di pool position? Si sono fatti i nomi di Paul Clement, già Solicitor General (vice ministro della Giustizia) durante la seconda presidenza di Bush jr, di Brett Kavanaugh, segretario dello staff della Casa Bianca tra il 2003 e il 2006, oggi giudice della Corte d’Appello del distretto di Columbia, di Frank H. Easterbrook, il giudice del settimo distretto che Scalia avrebbe voluto come successore. La nomina di un giudice relativamente giovane come Clement o Kavanaugh potrebbe notevolmente influenzare la composizione della Corte almeno per i prossimi venticinque anni.
Tuttavia, perché mai è così importante la nomina di un giudice della Corte Suprema, quasi da superare quella di un ministro di gabinetto?
Innanzi tutto occorrerà precisare che in Italia, ma più in generale in Europa, poco conosciamo della giurisprudenza statunitense e ancor meno di quella della Corte Suprema. A livello medio non sapremmo dire molto di più del fatto che si tratta di un sistema di Common Law e che i nove giudici supremi, nominati dal Presidente con il consenso del Senato, hanno il potere di emettere sentenze vincolanti in merito ai casi loro presentati dai tribunali minori. Ma chi sono i giudici della Corte Suprema? E quali linee giurisprudenziali seguono? Qual è la composizione sociale della Corte?
Si tratta di un microcosmo affascinante. Essa riunisce da sempre l’élite giuridica che, su proposta del Presidente in carica, viene proposta di fronte al Senato in occasione della morte – la carica di giudice della Corte Suprema è, teoricamente, a vita natural durante – o del ritiro di uno dei giudici. Dunque il partito che riesce ad aggiudicarsi il maggior numero di giudici durante un mandato presidenziale può sperare di determinare il corso della giurisprudenza statunitense per i successivi trent’anni. Basti pensare che il Chief Justice William H. Rehnquist, nominato da Nixon nel 1972, ha concluso la propria la carriera solo nel 2005.
Altrettanto interessante è sindacare quali componenti sociali, religiose ed etniche sono rappresentate nella Corte. Ciò che si noterà immediatamente è che, dei nove che hanno composto la Corte tra il 2010 e il 2016 nemmeno uno è stato protestante, ovvero appartenente a quella che è la confessione, pur declinata secondo svariate chiese, più diffusa negli USA. Tra il ritiro dell’A.J. John Paul Stevens e il decesso dell’A.J. Scalia, si contavano sei giudici cattolici e tre ebrei – gli A.J. Stephen Breyer, Ruth Bader Ginsburg, Elena Kagan -. Dei cattolici due erano di origine irlandese – il Chief Justice John Roberts e l’A.J. Anthony Kennedy -, due erano gli italoamericani – l’A.J. Scalia e l’A.J. Samuel Alito -, uno afroamericano, l’A.J. Clarence Thomas, uno il giudice latinoamericano, Sonia Sotomayor. La componente repubblicana era totalmente egemonizzata dai cattolici, mentre i democratici potevano contare sui seggi di Ginsburg, Breyer, Kagan e Sotomayor. Sarebbe certamente interessante poter verificare – e non mancano gli studi sociologici in merito – l’influenza della componente cattolica e di quella ebraica nel mondo politico statunitense. Basterà ricordare che tanto i cattolici quanto gli ebrei ebbero, anche negli USA, una storia abbastanza tormentata in quanto strettamente associati con l’immigrazione. Furono osteggiati dai quei gruppi xenofobi WASP i quali, già nel XIX secolo, vedevano nel pericolo di una presunta “influenza papista e giudaica” un pericolo per la giovane repubblica: ancora negli anni ’50 del secolo scorso l’A.J. William J. Brennan, un moderato cattolico irlandese nominato da Eisenhower su proposta di un cardinale conservatore come Spellman, dovette difendersi dall’accusa di fare gli interessi del Papa, reagendo con la promozione di una politica strettamente liberal all’interno della Corte. Lo stesso giudice Scalia, quando gli venne richiesto se la sua fede intransigente non gli avesse mai creato problemi nel suo ambiente lavorativo, avrebbe risposto con il classico gesto siciliano della mano posta sotto il mento e poi rivolta verso l’esterno. Tuttavia sembrerebbe che proprio cattolici ed ebrei rappresentino, ad oggi, la coscienza d’élite del paese, forse proprio in virtù del parziale isolamento sociale da essi a lungo subito.
Non meno rilevante è la provenienza accademica dei giudici: attualmente quattro provengono dalla Law School di Harvard – Roberts, Kennedy, Breyer e Kagan, che ne è stata il decano -, tre da Yale – Thomas, Alito, Sotomayor – e uno dalla Columbia University, Bader Ginsburg. Dunque si tratta mediamente di esponenti della borghesia media o medio-alta educata nelle università, oggi tendenzialmente liberal, della costa orientale. Non a caso Scalia, cattolico e campione dei conservatori, il quale era stato a sua volte studente ad Harvard, lamentava l’attuale mancanza di rappresentatività della Corte Suprema nei confronti della nazione americana: nessun protestante dal ritiro di Stevens nel 2010, nessun laureato da Baylor, ma nemmeno da Chicago o da Stanford, dal ritiro dell’A.J. O’Connor – la prima donna eletta Associate Justice, peraltro su nomina di Reagan – nel 2006.
Tuttavia i giudici della Corte sono i nove saggi degli USA, una specie di ridottissima Camera dei Lord che si assume il compito di giudicare i casi legali più importanti e di influenzare la vita dei cittadini americani in maniera determinante, talvolta più delle politiche governative o delle deliberazioni del Parlamento in materia di giustizia. Alla Corte vengono infatti sottoposti dai tribunali ordinari quei casi di dubbia costituzionalità, così come spetta alla Corte, forte del principio dei poteri impliciti, giudicare la costituzionalità delle leggi federali e statali. Fu ad esempio la Corte Suprema presieduta dal Chief Justice Warren E. Burger a decretare, con la celebre sentenza Roe vs Wade, la depenalizzazione dell’aborto in territorio statunitense, così come è stata quella attuale ad offrire piena legittimità all’Obamacare con la controversa sentenza del caso King vs Burwell.
I poteri della Corte sono di fatto vastissimi. Di per sé questo non sarebbe male, se non fosse che gli ultimi cinquant’anni di giurisprudenza hanno visto una pressoché assoluta politicizzazione dei giudici, tanto da parte democratica che da parte repubblicana. Fino agli anni ’50 del XX secolo, l’essere nominato giudice supremo non implicava la necessaria signoria politica o la dipendenza ideologica nei confronti di questo o quel partito: poteva sedervi in perfetta coerenza un uomo come Hugo Black, certo non un estimatore dei diritti civili ma, d’altra parte, uno strenuo difensore del New Deal, e un giudice repubblicano come Charles Evans Hughes non si sarebbe schermito dall’appoggiare lo stesso Franklin Delano Roosevelt. La frattura si ebbe nel corso del mandato della Warren Court, la quale si trovò ad affrontare una crisi sociale come forse mai si era abbattuta negli USA con tale violenza, dovuta alla richiesta di elementari diritti civili da parte della minoranza afroamericana negli Stati del Sud. La Corte, nella doverosa di necessità di far fronte ad una realtà non certo positiva come quella del segregazionismo, fu costretta nella condizione di dover variare radicalmente la maniera di concepire la Costituzione. Si discostò da quella che era stata la teoria originalista, propugnata, ad esempio, da un importante giurista quale Oliver Wendell Holmes, per favorire un’interpretazione creativa delle norme, di fatto adattandole alla condizione presente: di fatto divenne il braccio giuridico delle politiche di Nuova Frontiera e Great Society dei presidenti Kennedy e Johnson. Se nel caso dei diritti civili non si trattò certo di uno sbaglio, è tuttavia indubbio che l’eccessiva tendenza verso un’interpretazione creativa e modernizzatrice del dettato costituzionale, ha consentito non pochi strappi rispetto a quelli che erano gli intenti dei Padri Fondatori. Ciò che rappresenta però il danno più grave è senza dubbio la relativizzazione di diversi istituti del diritto, i quali sarebbero adesso applicabili o disapplicabile in maniera piuttosto ambigua a seconda dei casi in quanto privati di un principio comune di sovrintendenza e fedeltà alla Carta. Senza contare che la polarizzazione dello scontro in campo giuridico-politico, ha scatenato una vera e propria guerra sulle nomine dei giudici. Nel 1987 la nomina di un importante, anche se certamente controverso, costituzionalista, il giudice Robert H. Bork, venne brutalmente stroncata dall’opposizione dei democratici: si ricorderà il veemente discorso del senatore Ted Kennedy, il quale accusò il Presidente Reagan di voler imporre his reactionary vision of the Constitution on the Supreme Court and the next generation of Americans. No justice would be better than this injustice. Ancora oggi la maggioranza repubblicana si è espressa con estrema violenza rispetto alla nomina di un moderato quale il giudice Garland da parte di Obama. Anche all’interno della Corte non è semplice per i giudici sfuggire ad una dialettica estremamente politica. Dei giudici oggi viventi forse si potrebbe affermare che il solo A.J. Kennedy, voluto da Reagan nel 1988, non si faccia fuorviare dai dettami di partito votando sulle questioni etiche come un liberal e su quelle economiche come un conservatore moderato.
Quale sarà il destino della maggioranza alla Corte e della giurisprudenza statunitense per i prossimi anni? Mancano poche settimana a deciderlo.