Non c’è solo Hillary Clinton ad essere stata sconfitta nelle elezioni presidenziali statunitensi. Insieme a lei c’è la schiera dei sondaggisti fasulli, che fino a ieri la davano alla Casa Bianca con una probabilità vicina al 99 per cento. Tra gli sconfitti ci sono le lobbies finanziarie pronte a foraggiarla (886 milioni raccolti contro 189 milioni di Donald Trump). Ci sono gli artisti miliardari, disposti a fare da paravento, con le loro canzonette, alle evidenti gracilità politiche e personali della candidata democratica. Ci sono i circoli-del-politicamente-corretto, dell’America “presentabile” contro quella trash, del vino Sauvignon blanc e sushi a cena, contro birra Coors e hot dog. C’è la solita sinistra dei quartieri alti e dei poteri forti. Ci sono le cancellerie europee, preoccupate per la possibile ondata trampista sui loro Paesi. E poi c’è la grande stampa, quella d’oltreoceano e quella nostrana, oggi costretta a fare marcia indietro, dopo mesi e mesi d’incensamenti alla Clinton e di preannunciati tracolli per i repubblicani, così rissosi e divisi tra loro.
Gli stessi profeti del successo clintoniano sono oggi costretti a sottolineare la strategia sostanzialmente negativa della candidata democratica, dove il vero argomento portante della sua narrazione è stato quello di fermare Trump, l’usurpatore, il pericoloso ciarlatano senza alcuna competenza e qualificazione a occupare lo Studio Ovale.
Oggi – anche sui mass media italiani – si è parlato dell’ antipatia profonda e antica, che la Clinton suscita in una vasta fetta dell’America. Sono gli stessi mass media che ieri ne tessevano le qualità di statista, la sua capacità comunicativa, il suo essere in grado di abbracciare strati diversi della popolazione, le donne, i latino-americani, i neri. Tutti rigorosamente anti Trump – secondo i bene informati – e tutti mobilitati per sconfiggerne l’arroganza, il sessismo, l’intolleranza.
In campo sono scesi anche gli analisti “moderati”, più attenti alle vicende italiane che a quelle d’oltreoceano ed impegnati ad evocare inesistenti candidati “presentabili”, in grado di battere la rappresentante dei democratici. Volete mettere – dicevano – un candidato del Grand Old Party rispettoso e perbene al posto di quel bufalo di Trump ? Non ci sarebbe partita per la Clinton. Ed invece è stato proprio lo “smoderato” ad avere scompaginato i giochi, ad essere riuscito a “sfondare a sinistra”, a vincere anche là dove i democratici apparivano invincibili.
Una volta tanto non vale il vecchio detto secondo cui “le vittorie hanno molti padri e le sconfitte sono orfane”. Come abbiamo visto la disfatta della Clinton ha molti “padri”. Gli stessi che, anche qui da noi, hanno perso la percezione del Paese reale, dell’opinione pubblica, dei veri desideri della gente. L’esatto contrario di Trump, che è riuscito a dare voce alla volontà popolare, cogliendo i fermenti autentici del suo Paese, all’interno di quello che un osservatore attento della società americana, Andrew Spannus, ha individuato come il “riallineamento dell’elettorato statunitense”: dalla distinzione democratici-repubblicani a quella establishment-outsider. Trump – su questa linea – è stato chiaro e senza tentennamenti: “L’unico antidoto a decenni di governo disastroso da parte di una piccola élite – ha detto – è un’infusione marcata di volontà popolare. Su ogni questione che affligge questo paese, il popolo ha ragione e l’élite di governo ha torto”. Per questo ha vinto. Sulle ragioni della sua vittoria e della sconfitta della sua avversaria molti dovrebbero fare autocritica. Tra i cosiddetti “moderati” e tra i progressisti. Al di qua e al di là dell’Atlantico.