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Afghanistan, la conversione di Emanuele Parsi: dal fallacismo alle tesi di Massimo Fini

by George Best
14 Marzo 2012
in Corsivi
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È proprio vero che la saggezza popolare non la batte nessuno! Si suol dire che «Solo i cretini non cambiano mai idea», e quindi figurati un cervellone come Vittorio Emanuele Parsi, che oltretutto è professorone all’università Cattolica, proprio come Monti Python, e perciò dev’essere pure lui una specie di “unto dal Signore” (o dai signori, che è più probabile).

Il Parsi che non t’aspetti compare ieri in prima pagina su La Stampa, sotto un titolo piuttosto aggressivo sulla missione occidentale in Afghanistan: «Che senso ha restare fino al 2014?». Leggi l’editoriale e con un po’ di sorpresa scopri frasi di questo tipo:

«In queste condizioni, che senso ha tirare fino al 2014? Non sarebbe più saggio, prudente ed efficace accelerare i tempi, prendendo atto del sostanziale fallimento – politico oltre che militare – di più di dieci anni di campagna? La guerra afghana ha infatti messo in evidenza tanto errori politici quanto errori militari. (…) Dal 2001, la campagna afghana ha visto l’affastellarsi di un’infinità di obiettivi: abbattere il regime talebano, distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda, catturare bin Laden, diffondere pratiche e istituzioni più democratiche, lottare contro la corruzione, sostenere il governo di Karzai, limitare l’influenza delle potenze regionali vicine. (…) In oltre dieci anni, possiamo dire di aver realizzato una minima parte di questo ambizioso, articolato e mutevole programma: bin Laden è morto, Al Qaeda ha subito colpi durissimi e molti insorgenti sono stati fisicamente eliminati. È vero. Ma molti altri ne hanno preso il posto e, cosa ben più grave, persino quella parte di popolazione che aveva salutato con speranza (se non proprio fiducia) l’intervento occidentale ci sta girando le spalle. Non a caso, il «mentoring e il training» delle forze di sicurezza locali si sta dimostrando fallimentare proprio per il crescere della diffidenza e insofferenza reciproca tra reclute afghane e militari della coalizione, percepiti sempre di più come l’ennesima forza di occupazione da parte della popolazione».

Ohibò, ti dici: ma è Parsi o Massimo Fini che scrive in incognito sul giornale degli Agnelli? Perché più meno sono le stesse cose che pensavi tu, magari da parecchi anni. In certi casi persino da quell’ormai lontano 2001, quando un certo George W. Bush (do you remember?) dichiarò la guerra globale al terrore, partendo lancia in resta per l’Afghanistan con i suoi scudieri europei.

Il professor Parsi, bisogna ammetterlo, non usa eufemismi da cattedra né giri di parole da tecnico in trasferta a Palazzo Chigi. Quello che pensa lo dice chiaramente, senza mezze misure: «Ma se occorre rivedere radicalmente la strategia, prima se ne prende atto e meglio è per tutti. Probabilmente abbiamo iniziato a perdere la guerra in Afghanistan quando non siamo riusciti ad assicurarci l’effettiva e leale collaborazione del Pakistan, che ha protetto e alimentato l’insorgenza quando era più debole e più vicina alla sconfitta, con l’obiettivo politico (Zweck) di continuare a esercitare la sua egemonia sul Paese vicino. La beffa è che Islamabad ha applicato la lezione di von Clausewitz meglio di Washington e ha probabilmente vinto la «sua» guerra. Così, nel 2014 -13 anni e decine di migliaia di morti dopo – proprio il Pakistan tornerà a essere il vero arbitro assoluto dei destini afghani: esattamente come quando a Kabul regnava il mullah Omar…».

Bravo Parsi! Tu sì che sei un cervellone! Al docente della Cattolica puoi dirgli tutto, ma non di certo che sia cretino. Infatti meno di due anni fa sosteneva tesi diametralmente opposte. Non ci credete? Meno male che grazie a internet esistono gli archivi virtuali, così senza troppo sforzo si riesce a documentare le giravolte non solo dei politici, ma anche dei professoroni.

Ecco cosa scriveva nell’aprile del 2009, recensendo il libro del giornalista di guerra Gian Micalessin: «Riesce a raccontare l’asprezza del conflitto evitando moralismi e grandguignol. Nel farlo ci dimostra come, dal punto di vista militare, la sfida afgana sia alla portata delle capacità europee, e come sarebbe fatale, innanzitutto per l’Europa, perdere una guerra che invece si può, e si deve, ancora vincere. In un coro di rassegnato e disinformato piagnisteo che descrive quella afgana come una battaglia già irrimediabilmente compromessa, il libro di Micalessin argomenta in maniera documentata e partecipe la tesi contraria: la guerra richiederà sforzi prolungati, una strategia politica volta a individuare e sfruttare le divisioni interne al composito fronte talebano, la mano ferma con Karzai e l’ambiguo ma determinante «alleato» pakistano, e la capacità di non farsi intrappolare dalle manovre iraniane. Ma può ancora essere vinta».Hai capito il “tecnico”! Sembra quasi di sentire le parole dell’ex ministro La Russa, quando in giacca mimetica arringava i nostri soldati nella base di Herat.

Ma non è mica tutto. Un mese dopo, nel maggio 2009, così scriveva in un articolo dal titolo alla John Wayne «Afghanistan, vietato perdere»: «Sconfiggere i talebani e l’estremismo che incarnano dovrebbe essere una nostra priorità. Siamo noi, e non gli Stati Uniti, a confinare con quel mondo musulmano dove il fondamentalismo fa proseliti. Siamo ancora noi, e non gli Stati Uniti, ad avere al nostro interno quote crescenti di popolazioni musulmane che, anche per la nostra incapacità di offrire loro un’efficace integrazione politica e civile, potrebbero essere sensibili al messaggio estremista». ‘Azz! Praticamente una via di mezzo tra Oriana Fallaci e il super-destro olandese, atlantico e ossigenato, Geert Wilders.

E nel luglio 2009, sotto un titolo come sempre deciso e volitivo («Il dovere dell’Italia a Kabul»), argomentava:  «Una ritirata dall’Afghanistan si presenterebbe come una sconfitta militare dell’Occidente e della Nato (la cui credibilità politica e militare verrebbe seriamente scossa); galvanizzerebbe e rinvigorirebbe le formazioni jihadiste ovunque nel mondo, privando ulteriormente della volontà di resistere e della speranza di prevalere tutti quelli che, nella vasta e variegata umma dei fedeli di Allah, lottano affinché islam e democrazia possano trovare una sintesi felice e originale: cioè renderebbe ancora più instabile e ostile il nostro “estero vicino”». Prendi su e porta a casa! Dedicato a tutti i disfattisti che mettono in dubbio la missione civilizzatrice degli Usa e dei suoi alleati (leggasi scudieri) occidentali…

Cosa sia poi successo al professor Parsi non è dato sapere. Gli articoli sulla spinosa questione afghana si sono diradati, finché nel giugno dello scorso anno, con un articolo intitolato in modo insolitamente poco roboante («Il colpo di coda dei talebani»), ammetteva a malincuore: «la sensazione è che i cittadini e i contribuenti occidentali, dopo dieci anni di guerra, siano semplicemente stufi di sentir parlare di Afghanistan». Nove mesi dopo, inaspettata, la svolta con l’articolo odierno, favorevole al ritiro anticipato delle truppe.

Che dire: chapeau! Bravo Parsi, come si diceva prima, solo i cretini non cambiano idea… Peccato che poi il prof, vuoi per pudore, vuoi per limiti ideologici, si fermi lì. Senza esplicitare le inevitabili conseguenze della sua corretta analisi. E cioè non ammettendo che l’intervento in Afghanistan era sbagliato fin dall’inizio, sia in termini politici che militari (lasciamo da parte i termini etici, che diamo per scontati); e non mettendo in dubbio l’intero assetto geo-politico degli Usa, che da oltre dieci anni, per essere benevoli, sta facendo acqua da tutte le parti.
E anche evitando di  sottolineare che gli undici anni di guerra – che secondo stime ufficiali (Onu, Nato, Crocerossa, Human Rights Watch) hanno provocato la morte di almeno 67 mila esseri umani (15mila civili afgani, 38mila guerriglieri talebani, 10mila militari afgani, 2.600 soldati Nato e 1.800 contractors e circa 730mila sfollati – sono serviti pressoché a nulla, visto che per sua stessa ammissione si è di fatto tornati al punto di partenza. Ma non temete, se tutto va bene fra un paio d’anni ci arriverà anche lui.

 

George Best

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