Il 7 gennaio 2015 un gruppo armato di estremisti islamici irruppe nella sede parigina del settimanale Charlie Hebdo assassinando dodici persone e ferendone quattro. I giornalisti rimasti uccisi ricevettero l’omaggio che è doveroso tributare a vittime innocenti della violenza. Per quanto non condivida minimamente i contenuti dei loro scritti e delle loro vignette, ho ritenuto, e ritengo, un atto pari alla barbarie jihadista disprezzare dei morti per via del loro colore, ideologico, religioso o etnico: se la sono andata a cercare non è un argomento valido… Eppure pare che ai colleghi di Charb, Wolinski e degli altri, non solo piaccia sfidare il pericolo, ma che ritengano per loro doveroso abolire ogni confronto con il pudore umano. Hanno ricevuto le condoglianze per gli amici uccisi, il plauso per il loro coraggio; la loro rivista, in via di fallimento, ha visto vendite e guadagni salire alle stelle. Eppure nulla hanno imparato se di fronte ad una tragedia come quella del terremoto in Centro Italia hanno saputo produrre vignette il cui cattivo gusto supera ogni ritegno. È vero, la satira, a differenza della parodia, non per forza deve far ridere: il suo scopo dovrebbe essere quello di generare riflessione in colui che ne fruisce. Ma dubito che rappresentare i cittadini di Amatrice come un piatto di lasagne possa indurre a molto se non al disgusto. Neppure la risposta successiva fornita dal settimanale, c’est pas Charlie Hebdo qui construit vos maisons, c’est la mafia, potrà valere molto.
Nel VI secolo d.C. l’imperatore bizantino Leone III promosse una campagna iconoclasta nei confronti delle immagini sacre, che, dai palazzi di Costantinopoli si diffuse per tutto l’Impero, sfidando le rimostranze popolari e l’autorità della Chiesa, e assumendo talvolta forme violente. Tuttavia il fine dell’imperatore, non certo un novello Giuliano l’Apostata, era combattere il culto idolatrico delle immagini, non avversare la Divinità di Cristo. Tuttavia l’immagine, il simbolo, possiedono una loro sacralità. Anche la morte è immagine, immagine della nostra impotenza di fronte a Dio o, in un’ottica laica, dinnanzi al destino, al nulla cosmico, alla tragedia quotidiana degli uomini. Dinnanzi alla morte vigono il silenzio ed il rispetto: è questa una delle basi della società, forse uno dei tratti fondamentali che distinguono una società civile dalla barbarie. Charlie Hebdo da vittima della barbarie si è trasformato in un fautore della barbarie stessa. Certo, questa barbarie non uccide né perseguita fisicamente, ma è tuttavia più subdola in quanto intacca le coscienze.
Tuttavia è altrettanto male indignarsi per quest’unica vignetta. Charlie Hebdo, nella sua passione dissacrante, è democratico: l’attentato a Nizza ha subito il medesimo trattamento dei terremotati italiani. Non è dunque un’indignazione patriottarda o campanilista (poiché tale è quella che serpeggia per il web) ciò che dev’essere opposto alle vignette demenziali del periodico francese. Occorre un’indignazione di portata maggiore che si ponga come unica domanda: v’è davvero una qualche forma di coraggio, perché tale è la qualità della quale si fregiano i vignettisti, nel rappresentare dei morti con macabra ironia? È segno di coraggio e dell’andare controcorrente rispetto ai valori della società presente raffigurare Dio, che si tratti del Dio dei Cristiani, di Allah o di JAHWE, come il vero assassino dei giornalisti uccisi, presentare con sconcezza la Trinità, dogmi ed autorità religiose d’ogni fede? Tutto ciò è frutto di una mentalità laica e tollerante o piuttosto di un integralismo tra i peggiori, quello laicista? Oppure, senza assumere un punto di vista sulla questione segnato dalla religiosità, è da ribelli controtendenza attaccare simboli pregnanti di sacralità e che qualcosa rappresentano per le coscienze? Forse, un tempo, sputare su tutto questo poteva significare ribellione, rifiuto dell’oppressione, un’alternativa. Oggi ha solo il sapore amaro di un’ironia sgradevole e fine a sé stessa, per di più banale e scevra d’ogni contenuto. Ecco, la banalità dissacrante: specchio di una società cinica, della quale Charlie non è che un tassello insignificante. Dobbiamo rispetto ai morti – e mi riferisco anche ai morti di Charlie -, ma non verso lo squallore di un giornaletto da vespasiano. Basta ignorarlo.