Pantomima per un’altra volta (Féerie pour une autre fois), dato alle stampe nel 1952 per i tipi di Gallimard, è un testo cruciale per comprendere il genio maledetto di Luis-Ferdinand Céline.
Accolto con indifferenza, sono infatti lontani i clamori di Voyage au bout de la nuit e di Mort à crédit – romanzi rivoluzionari che consacrarono il medico di Courbevoie, ancora oggi fonti d’ispirazione: si pensi alla riproposizione teatrale di Elio Germano del “Viaggio”, musicata da Teho Teardo, oppure alle citazioni che il regista Paolo Sorrentino ha voluto inserire nei film Le conseguenze dell’amore e La grande bellezza – Féerie è un inferno paranoico non dissimile dai famigerati pamphlet, solo con un bersaglio che si fa totalizzante. Un mondo avverso, per un destino da fuggiasco. Di mezzo, oltre per l’appunto Les beaux draps, Mea culpa, L’école des cadavres e Bagattelle pour un massacre, il tritacarne della Seconda Guerra Mondiale, il viaggio sotto le bombe prima a Baden Baden, poi a Sigmaringen, quindi in Danimarca per sfuggire al mandato di cattura per tradimento, emesso dai compatrioti a guerra finita. Mentre le vicende riguardanti l’apocalittico espatrio finiranno per fornire materiale alla Trilogia tedesca (D’un château l’autre, Nord e Rigodon), Pantomima, prologo di Normance in una ideale continuità narrativa, si colloca nel momento della percezione del tracollo, ovvero, come sostiene lo stesso Céline, quando si palesa “nelle catastrofi, il cannibalismo delle folle”.
Volendo azzardare un paragone architettonico, questo scritto rappresenta il barocco marcio dello scrittore francese, ovvero l’azzeramento di ogni appiglio, di ogni filo conduttore riconducibile ad una trama; per contro, a compensare questo vuoto strutturale, la scrittura esplode in frattaglie come se il corpo sfilacciato, tenuto insieme da cartilagini di rancore, gocciolasse per quasi duecento pagine in una mattanza convulsa e furibonda. Céline, rivendicando il sui patriottismo e l’appartenenza reazionaria ad una Francia d’archetipo nordico, in procinto di farsi film a colori per turisti, vomita bile, spesso utilizzando una toponomastica arcana, per esperti di gergalità transalpine. Al contraltare di pizzi, merletti è delicatezze “fin de siècle”, di un gusto cesellato di fino, prezioso nel dettaglio, si pone in Pantomima per un’altra volta, il brutalismo descrittivo delle epurazioni, delle vendette, la fuga dell’animale braccato, del clandestino costretto a muoversi circospetto, tra prigioni ed isolate catapecchie. È il Céline circense, vestito di stracci, mal rasato, col gatto Bebért e la moglie ballerina Lucette, quello delle fotografie più note. Il Céline diffidente, brontolone, ostile, guardingo, quello che un recente film francese non è riuscito a rendere appieno, quello che nel testo sproloquia accelerando all’inverosimile il sordido delirio.
Nessuna redenzione – Bukowsky farà apprendistato tra quelle pagine – tanto che non è evitabile l’encomio per il lavoro di traduzione ad opera di Giuseppe Guglielmi per Einaudi, assai efficace nel restituire cadenza folleggiante e potenza di fuoco alla parola danzante negli abissi. Ma è ancora romanzo Féerie? O forse sarebbe meglio coniare altra definizione? Come se Céline remixasse sé stesso, come se lo scartavetramento del canovaccio, ovvero dell’ossatura, avesse lasciato in bella vista solo brandelli di materia organica, appesi ai ganci del ritmo, penzolanti dal carroponte da macello guidato dalla subdola cattiveria umana. Un soliloquio dove finisce dentro di tutto: nomi di luoghi e persone, fatti storici, leggende, ebanisteria da parolaio, affondi onomatopeici, cazzi privati dell’autore, pentagrammi con note, filastrocche, bestemmie e scurrilità. Ecco, qui il medico con la penna intinta nel sangue e nella merda, pone al lettore le sfida più difficile, ovvero quella di lasciare che il nodo all’ormeggio si sciolga, per seguire il flutto in direzione orizzonte. Ovunque sia possibile salvare la pelle.