Il cinema a Taiwan. Tradizione e modernità, una storia irrisolta. La svolta del XXI secolo. Questi i temi trattati nel focus dedicato al cinema di Taiwan dalla rivista 8½ nel numero 26 del 2016. La questione, tuttavia, rispetto alla quale acquista rilevanza affrontare una analisi della storia del cinema dell’Ilha Formosa, come ebbero a chiamarla per la sua straniante bellezza i portoghesi, sembra essere un’altra: esiste una identità taiwanese non assimilabile, in tutto o in parte, a quella cinese? Ciò che si postula, in altri termini, è che la costruzione di un cinema nazionale, quale si è venuto formando a partire dai film e dai registi del New Taiwan Cinema, costituisce altresì prova dell’esistenza di una identità nazionale taiwanese, strettamente connessa con la vita politica e sociale, passata e presente, dell’isola.
Converrà premettere che Taiwan non ha avuto un proprio cinema nativo fino alla sua liberazione dal Giappone, avvenuta alla fine della Seconda Guerra Mondiale, malgrado sia innegabile il valore e l’impatto del lascito della cultura nipponica sul processo di modernizzazione dell’isola e, dunque, sulla storia del cinema propriamente taiwanese.
È noto che Taiwan è stata una colonia giapponese dal 1895, quando in virtù del trattato di Shimonoseki viene ceduta al Giappone dall’Impero Qing, rimasto sconfitto nella Prima Guerra Sino-Giapponese, sino al 1945. Ciò spiega perché, per tutta la prima metà del secolo, le pellicole proiettate a Taiwan siano per lo più giapponesi, come giapponese è l’utilizzo, importato e adattato alla realtà taiwanese, del benshi, il narratore del cinema muto. Come ha dichiarato in una recente intervista Hiroshi Komatsu, professore di Storia del Cinema all’Università Waseda di Tokyo, il benshi ha dettato codici ben precisi a tutta la cinematografia giapponese del primo periodo del muto, non c’erano grandi movimenti di macchina e pochi primi piani, perché se l’inquadratura cambiava troppo spesso o se il movimento di macchina era troppo repentino, questo avrebbe impedito al benshi di seguire con regolarità la vicenda. Il benshi appartiene alla tradizione culturale orientale, che si basa molto sulla narrazione e assai poco sul movimento e che, pertanto, rende ragione del carattere statico del primo cinema giapponese e delle produzioni taiwanesi del periodo coloniale. Questi dati testimoniano del fatto che l’anima giapponese è entrata, in parte, nel processo di costruzione di un cinema nazionale indigeno e, attraverso di esso, di una distinta coscienza identitaria.
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Di chi è la “colpa”? Il titolo del primo film di produzione locale, Whose Fault Is It? (1928) suona come una evocazione ante litteram dello statuto internazionale del Paese, escluso nel 1971 dalle Nazioni Unite e privato, negli stessi anni, di relazioni diplomatiche ufficiali con la maggior parte degli Stati della comunità mondiale.
Dal 1945 al 1949, gli anni noti come periodo del Terrore Bianco, è la Cina Repubblicana del partito nazionalista di Chiang Kai-shek a recuperare il controllo politico, economico e culturale sull’isola di Taiwan dopo la resa del Giappone, per poi stabilirvi la Repubblica di Cina nel 1949. Senonché, la Cina di Chiang Kai-shek (Zhonghua Minguo) è una Cina sotto legge marziale, che si prepara a rovesciare la Repubblica Popolare Cinese e che si riconosce il ruolo di unica custode della eredità della Tradizione. Questo quadro ideologico non poteva favorire la nascita di un cinema propriamente taiwanese. Invero, il cinema del dopoguerra venne riorganizzato, e finanziato, dal Guomindang con la creazione di tre organismi: il Central Motion Picture Company (CMPC) di proprietà dello stesso Guomindang; il China Motion Picture Studio e il Taiwan Motion Picture Studio, rispettivamente controllati dal Ministero della Difesa e dal governo provinciale, entrambi specializzati in documentari. Il risultato fu una larga produzione di cinema di evasione e di propaganda politica, che utilizzava i codici del genere senza alcun riferimento alle specificità dell’identità nazionale taiwanese, e senza l’apporto di innovazioni di ordine stilistico.
Per spezzare questo cortocircuito tematico e formale, il CMPC, verso la metà degli anni Sessanta, promuove due diverse tendenze. La prima, nota come “realismo sano” (jiankang xieshi), trova espressione in registi come Li Xing, il quale, nella sua pellicola più conosciuta, Jietou xiangwei (1963, “Head of Street, End of Lane”), indugia nella descrizione dell’eroismo degli umili. La seconda tendenza apre le porte al cinema hongkonghese. Non si tratta semplicemente di una operazione commerciale, bensì della volontà politica di mettere distanza con la Cina comunista. Si stabiliscono sull’isola gli Hongkonghesi Li Hanxiang, autore del melodramma Liang Shanbo yu Zhu Yingtai (1963, “Butterfly Lovers”, ovvero il Giulietta e Romeo della tradizione orientale); e il celebre King Hu, i cui film di produzione taiwanese, come Longmen kezhan (1967, “Dragon Gate Inn”) e Xia nu (1969, “A touch of Zen”) incontrano il vasto apprezzamento del pubblico locale.
La svolta, tuttavia, giunge solo nel 1982. A fronte di una industria cinematografica taiwanese schiacciata dal successo del cinema di Hong Kong, in un rinnovato clima politico, maggiormente incline a tollerare blande forme di opposizione e di libera espressione del pensiero, il CMPC decide di affidare un modesto finanziamento a quattro giovani registi senza alcuna esperienza nel lungometraggio, Edward Yang, Dao Decheng, Ke Yizheng e Zhang Yi, ai quali viene chiesto di dirigere un film-antologia in quattro episodi. Guangyin de gushi (1982, “In Our Time”) viene da subito riconosciuta come la pellicola inaugurale del New Taiwan Cinema. La locuzione, la cui paternità si deve a Douglas Kellner, ha una sua ragion d’essere: il cinema taiwanese recente, a partire dai primi anni Ottanta, sarebbe “nuovo” in quanto esso si oppone al precedente cinema di genere (di produzione locale, hollywoodiana o hongkonghese che fosse) e mira ad esplorare attraverso la macchina da presa i problemi della società taiwanese. Per altro verso, Kellner rifiuta l’uso del termine “new wave”, in parte perché abusato, ma segnatamente in quanto ritiene che la serie di film prodotti nel corso di questa decade abbia posto le condizioni per la nascita di un cinema nazionale capace di riflettere distintamente i caratteri dell’identità taiwanese e, dunque, di trascendere ampiamente l’arco temporale di un decennio.
Il secondo film, che segna un momento ancor più fondamentale del New Taiwan Cinema, è Erzi de dawan’ou (1983, “The Sandwich Man”), adattamento di tre racconti di Huang Chunming, uno dei massimi esponenti del movimento letterario noto come xiangtu wenxue (letteratura regionalistica, letteralmente: “terra natia”). I tre brevi film di cui si compone The Sandwich Man (Son’s Big Doll; Vicki’s Hat; A taste of Apple) costituiscono altrettante “allegorie di una nazione”, affreschi che ritraggono momenti della storia di Taiwan, facendo altresì uso di una buona dose di senso critico e realismo sociale. L’episodio diretto da Hou Xiaoxian, Son’s Big Doll, racconta il pauperismo e la lotta per la sopravvivenza di una coppia di migranti. Sul piano tecnico-stilistico, il connotato della regia di Hou sono le inquadrature fisse in campo lungo, così da osservare il legame dei personaggi con l’ambiente sociale circostante. L’episodio successivo, Vicki’s Hat, diretto da Zeng Zhuanxiang, colpisce per la carica antimoderna del messaggio che porta con sé, ovvero la potenziale distruttività, a costo della vita, dello sviluppo economico indiscriminato; lo sforzo dei due giovani venditori di pentole a pressione di fabbricazione giapponese allude alla energia entusiastica con cui Taiwan si è aperta allo sviluppo economico capitalistico, ma ne considera nondimeno gli elevati costi sociali, di cui è metafora il grosso tumore che giganteggia sulla testa rasata di Vicki, quando un bel giorno decide di togliersi quell’ipocrita cappello, da cui mai si era prima separata.
Esiste un registro stilistico comune a tutto il New Taiwan Cinema, che si esprime nella ricerca di un linguaggio cinematografico distintivo di una identità nazionale costantemente indagata. Registi come Hou, Zeng e Edward Yang fanno ricorso ad uno stile narrativo frammentario, punteggiato da episodiche ellissi narrative, che costringono lo spettatore ad assumere una posizione attiva nella costruzione del significato del film.
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La riflessione di Hou Xiaoxian sulle ferite aperte della storia di Taiwan prosegue nei lungometraggi di cui è autore negli anni successivi, come nel suo capolavoro autobiografico Tongnian wangshi (1985, “A time to Live, a Time to Die”), in cui è rivissuto il dramma dell’esilio; ma è segnatamente nella trilogia dedicata a Taiwan – con Beiqing chengshi (1989, “City of Sadness”), The Puppetmaster (1993), e Haonan Haonu (1995, “Good Men, Good Women) – che tale analisi raggiunge la piena maturità. Riteniamo non sia un caso se la consacrazione del valore dell’opera di Hou sia arrivata con il Leone d’Oro assegnato a City of Sadness alla Mostra di Venezia nel 1989, che si è confermata ancora una volta la più autorevole rassegna di cinema sulla scena internazionale.
City of Sadness è un dramma storico che racconta, prendendo a pretesto la quotidianità di una famiglia taiwanese, il tristemente noto incidente del 28 Febbraio 1947. Un tema fino ad allora considerato tabù: l’oppressione del Guomindang sulla popolazione di Taiwan, culminata nel massacro del 28 febbraio, che ha avuto un ruolo decisivo nella formazione di una coscienza identitaria taiwanese autonoma da quella cinese. Il ritmo della narrazione è estremamente dilatato, la lingua della recitazione non è il mandarino, bensì il minnan, o taiwanese, inframmezzato da qualche parola di giapponese, a rimarcare il senso di appartenenza a una cultura propria.
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Negli anni in cui Hou Xiaoxian firmava la regia di altri memorabili film, come il labirintico Zaijian Nanguo Zaijian (1995, “Goodbye South, Goodbye”) o il lisergico Millenium Mambo (2001), due importanti registi esordivano ponendosi in continuità con il New Taiwan Cinema del primo periodo: Tsai Mingliang e Wei Desheng. Tsai, premiato due volte alla Mostra di Venezia, con il Leone d’oro per Aiqing wansui (1994, “Vive l’Amour”) e con il Gran Premio della Giuria per Stray Dogs (2013), eredita dal New Taiwan Cinema l’attenzione per le trasformazioni della società taiwanese, cui si aggiunge il suo personale rifiuto della frenesia produttiva indotta dalla modernità, quella che Paul Virilio nel 1977 ha definito “dromocrazia”, ovvero letteralmente il governo della velocità. Wei Desheng, autore di Cape n° 7 (2008) e di Warriors of the Rainbow: Seediq Bale (2011), si attesta, nelle parole del critico cinematografico taiwanese Ryan Cheng, come la voce più interessante di quella che viene comunemente chiamata “Contemporary New Wave”; ma che, a ben vedere, è una reinterpretazione dei codici del New Taiwan Cinema, di cui prosegue la tendenza alla continua ricerca di una estetica innovativa sullo sfondo di riferimenti storici.
Tornando, in pochissime battute, all’interrogativo iniziale, possiamo concludere che una identità specificamente taiwanese esiste, fatta di una sostanza culturale composita, in cui la tradizione della Grande Cina entra senza mai esaurirne i contenuti espressivi; né potrebbe essere altrimenti, se è vero, come si è visto, che esiste un cinema di qualità in grado di rappresentarla.
@barbadilloit