Facile cadere nella retorica. Facilissimo cadere del buonismo, come lo è pure lasciarsi andare ad estremizzazioni assai banalizzanti. Sì, perché lo striscione dedicato a Luigi Preiti, il disperato che domenica scorsa ha ferito due carabinieri e una donna incinta davanti a Palazzo Chigi, e portato come una icona durante le manifestazione del primo maggio torinese, rivela un nulla disarmante. Una provocazione né bella né, tanto meno, buona. Ma vuota e annichilente in sé. Già, perché quell’immagine così issata, mette a tacere ogni logica discorsiva, alla stessa stregua di una manganellata argomentativa che va dritta sui denti.
Certo, anche la retorica assai stucchevole circa il biasimo per l’aver colpito due carabinieri al lavoro è priva di forma (e nobiltà). Poiché, se le forze dell’ordine vanno in giro armate, è appunto perché devono presidiare a pericoli che superano di gran lunga la dialettica ordinata. Un lavoro sicuramente da rispettare appunto per la gravità della scelta fatta. E non certo da umiliare per mezzo di una certa retorica che vorrebbe assimilare il ruolo dei carabinieri a quello di semplici impiegati in un qualsiasi ufficio assicurativo.
Torniamo però a quello striscione di Torino. Chiariamo una tesi: ognuno è in un certo qual modo l’icona che sceglie di portare. O almeno vorrebbe esserlo. Si pensi ai santi, agli eroi, che per una comunità diventano un vero modello di riferimento. I disperati, coloro cioè che hanno letteralmente perso la speranza, non posso essere innalzati. È un non senso. Fino a prova contraria, un martire, quella speranza, l’ha mantenuta fino alla fine, forzando sé stesso in uno slancio di positività da consegnare alle generazioni a venire. Nel gesto di Preiti non c’è nulla di tutto ciò. Semmai c’è un obbiettivo pasticciato e, stando a quanto riferiscono i suoi legali, pure un suicidio mancato.
Un fallimento dunque, il suo, su tutta la linea. Con questa non si vuole nascondere la tragicità di una condizione personale. Guai a liquidarla con un colpo di penna. Ma non si può nemmeno pensare di innalzare un gesto informe, figlio di una dinamica dissennata, a modello. Il primo maggio non può essere, anche sforzandosi fino al diabete, dedicato a Preiti o ai coniugi che si sono tolti la vita a Macerata per debiti.
Chi decide di innalzare queste icone, anche nella provocazione, è un disperato. Ma per scelta: questo è il peggio. Una strana disperazione che è figlia di un anarchismo viscerale che sta divorando le istanze di quella che viene definita area antagonista e che vede appunto nel disordine di un gesto insensato un modello fine a sé stesso. No, questa deriva non può essere approvata. Nel bene o nel male, il vecchio Partito comunista aveva la speranza di un “sole dell’avvenire”. I ragazzi di Torino, invece, dietro la maschera di Anonymous, celano una agghiacciante anonimato valoriale.