Ci siamo. Eravamo rimasti clamorosamente orfani, per albionica esterofilia o pusillanime resa al vecchio, di musica contemporanea italiana. Eravamo per altro rimasti delusi dall’ultima moscia uscita de I cani (Aurora), spenta colonna sonora easy listening per coppietta da centro commerciale, attigua alle smancerie presepiste del Baglioni Claudio. Nel paludato ghetto sonico tricolore – sezione ginepraio alternativo romano – ribolle però a nostro vantaggio il malsano collage post-post-post-punk di Bobby Joe Long’s Friendship Party. Ed eccoci quindi premiati dall’imprevedibile “nonsense raffinato”, dal cinico cazzeggio catacombale riversato nel disco autoprodotto Roma Est. Dei BJLFP poco si sa e questo già basta: ci si augura infatti che il mistero permanga più a lungo possibile, giacché diversamente potrebbero avere inizio interviste e divulgazioni mediatiche, trasformando come spesso accade l’ascolto esclusivo e sotterraneo in generico rito collettivo plastificato. Per ora quel che ne esce è la strafottenza declamatoria di un nichilista accidioso, le costruzioni lessicali fatte di microcosmiche gergalità e riferimenti retro-futuristi non privi di stile, tutta la spavalderia da Romanzo criminale sorretta da ipnotiche sonorità electrorock ’80.
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C’è un umore sprezzante à la Svart Jugend, sottotraccia – ripreso anche dalla grafica minimale b/n del misterioso cifrario 03:33 – c’è l’indolente sarcasmo capitolino, sovrapposto però ad un modernariato grottesco, da b-movie su assassini seriali, al ghigno beffardo e ai sinistri riverberi della periferia più sordida. Poco più in là solo il gracidare delle rane, aleggiano Pier Paolo Pasolini e Remo Remotti, sicché: fuori le lame. Spirali metronomiche muovono verso anfratti di cemento imbrattati da writers, con lampioni intermittenti su sfasciacarrozze ed anonimi fabbricati, mentre gli enunciati alimentano paranoia a grappoli grazie ad un impianto citazionista serrato, intriso di stentorea loquacità dada-noir. “Maledici et millanta”, Vladimir Majakovskij, Jean Michel Basquiat, Filippo Tommaso Marinetti, formaldeide, sangue morlacco dannunziano, troppi cinesi e birra in lattina del discount, un gotico marginale e cadenzato che paradossalmente ha poco a che fare con i trastulli veterocomunisti degli Offlaga Disco Pax o con gli esistenzialismi dei Massimo Volume, giusto per citare due esempi di recitato sovrapposto al “rock”. Siamo piuttosto dalle parti della cold-wave e per certi versi di Gaznevada e Great Complotto, virati però zona Prenestina, oggi, 2016. “Non vedo l’ora di aprire il social network per distrarmi con le innumerevoli interessanti opinioni dell’autorevole massa riguardo l’andazzo generale”, annuncia il tizio al microfono, con perfido sarcasmo.
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Fatalismo e fastidio, nel vortice del Totip dove il soliloquio – a tratti come un flusso di coscienza – degenera nella parodia del neorealismo, in un sottomondo attualissimo dove la violenza è anestetizzata in massime secche e ripetitive. L’unico realismo possibile, quello dei BJLFP, è per certi versi accostabile alla gretta lente d’ingrandimento, puntata sullo squallore metropolitano, dell’hip hop, o al Sorprendente album d’esordio de I Cani di Contessa (che com’è giusto che sia non è più la stessa). Talvolta nelle 13 tracce il segno viene oltrepassato, come nel caso di C’ho Una Troia Morta Sotto Il Materasso, nell’ottica di alimentare iconoclastia, ricamata da astrusità e da apparizioni dall’oltretomba: Cesare Cadeo e Maurizio Seymandi. A ragione però possiamo escludere l’etichetta di band demenziale, benché gli elementi trash siano presenti, ma sempre frammisti ad altro, ad un’apatica propensione a fottersene di tutto. Roma est è disco cinematografico e notturno, spesso schizofrenico anche se uniformato da una produzione inappuntabile. A parere dello scrivente colonna sonora perfetta per le imminenti elezioni comunali romane, puntuale nel cogliere l’abisso che separa la diffusa teppaglia dagli untuosi panegirici dei politicanti. D’altronde pure nella Capitale “è tutto un plug in che non risponde”.
@barbadilloit