Esistono diversi modi di abitare il dolore. Indossare uno sgangherato costume da buffone. Alloggiare, da apolide, l’affollata piazzetta di una città senza nome. Costringersi in un lungo e funereo abito scuro: una dama nera, con tanto di piumaggio, si muove al centro di un’umanità perduta. Truccarsi di buio, sporcarsi lo sguardo di fuliggine, ancheggiare su un terreno sdrucciolevole, in una sola destinazione: la solitudine di un nido violato. Si diffonde nel tempo e sulla pagina, la violenza di uno strazio visibile solo agli eccedenti in delicatezza, gli emarginati emotivi. Il dolore possiede le fattezze di un gigante invisibile, un fantasma che corrode lentamente e fredda ogni tentativo di liberazione.
È mediante l’immagine infranta di una penna immersa in un inchiostro ghiacciato, che giunge la figura lontana della scrittrice Ágota Kristóf (Csikvánd, 30 ottobre 1935 – Neuchâtel, 27 luglio 2011). Autrice ungherese, naturalizzata svizzera, si racconta in francese nell’amara convinzione di essere un’analfabeta. Un’illetterata tradotta in trentadue lingue. Le emozioni narrate sono incandescenti, una vampa che richiede atto di ibernazione.
Il ghiaccio bollente della letteratura, un abusato ossimoro: una sfera incandescente attraversa velocemente gelide folate di vento, si dirige nella presa di un lettore disorientato. Un’autrice prende le distanze da se stessa come unico antidoto al vivere nel racconto. Per non essere inghiottita dall’inchiostro, si fa remota e da un altrove lontanissimo scruta la gigantografia di un’angoscia esistenziale. La scrittura della Kristóf è sconcertante nella potenza cruda di un vocabolo che si fa arma. Parole amare, asciutte e crudeli penetrano nel lettore con una fredda violenza: il tratto di un cecchino spietato. La voce agghiacciante nella mente dell’autrice, si fa rovente nella pupilla del lettore.
Rappresentata ne “La trilogia della citta di K”, la sua penna è un bisturi chirurgico che taglia con precisione ogni stato d’animo. Operazione lucida che lascia dietro sé la frammentazione di ogni emozione, lo svuotamento di senso e la sensazione perpetua di impotenza. L’opera è una mostruosa allegoria sulla guerra. Non ci sono precise indicazioni storiche, il conflitto evocato appare quello della seconda guerra mondiale. La trilogia è lacerante sino al fastidio, è la visione di un film che ti sorprende sulla poltrona in un pentimento tardivo. È la visione di un “Antichrist” firmato da von Trier, in tutta l’impreparazione allo squarciamento registico, in quell’andare al cinema indifesi di fronte alla follia dietro la macchina da presa. Si resta pietrificati, disorientati, contrariati e con un “perché” in più tra le mani.
Così la perturbante scrittura della Kristóf, nessun obbligo: da un “perché” si giunge a un “poiché” tale attraversamento è ineluttabile. Ci sono opere dalle quali non si può prescindere, esistono penne che non si possono ignorare. Universi insani che spiegano la guerra attraverso rimandi di tele violente. “Guerniche” allegoriche, rappresentate dall’assenza di pietas. Il sapore di tutto il libro è quello amaro del fiele, il colore conserva la prevalenza dei registri scuri, il suono è assente. Pur nelle numerose esibizioni dei due gemelli, protagonisti della Trilogia, non vi è alcun commento musicale. Nell’affabulazione dei suoni, troneggia il silenzio.
Ágota Kristóf scrive del dolore dal dolore. Immersa nella lacerazione, non orpella, non edulcora, non ricama. Quasi alla maniera sadica, trasferisce al lettore una realtà che non può mascherarsi. Racconta dall’età dell’innocenza un mondo privo di candore. L’infanzia dei due gemelli è svuotata delle virtù del fanciullo. I bambini sono adulti crudeli, bellissimi fuori e marci dentro. L’innocenza dell’infanzia strangolata dal peso del conflitto non registra alcuna via di fuga: la mancanza di speranza si fa asfissiante sino a soffocare anche il più freddo dei lettori. I contatti tra i personaggi vivono su un registro di inafferrabilità: il sesso è dolorosamente bestiale, i dialoghi appaiono come copioni dettagliati e precisi, imparati a memoria per l’atroce parte da rappresentare. L’assenza di umanità pervade ogni pagina che arriva come una morsa perpetua allo stomaco. Uno stillicidio senza epilogo. Il libro è un tunnel nel quale non si ravvisa la fine, una voragine infinita che inghiotte ogni barlume di sogno. La guerra è un anestetico delle emozioni, una morfina che nel creare dipendenza, annulla ogni possibilità di ritorno.
L’infanzia negata è nell’immagine di due gemelli, una specularità che frantuma ogni confine e confonde un fanciullo nell’altro. Una deformazione, un’asimmetria, un mondo altro dietro lo specchio: la morte, la fine del sogno, la frontiera. Il libro è attraversato da una crudeltà dell’assenza che non è malinconia, ma realismo vivo e pulsante. La parola è scarna, essenziale, spogliata sino all’osso, ciò nonostante rimane incollata per giorni. È quella sequenza filmica annegata nella rimozione, che in una notte di demoni, continuerà a tornare. È quel voler abbassare lo sguardo di fronte alla crudele latenza umana che non risparmia nessuno. È un inno al crepuscolo che alcun sole può riparare. È la vita che accade nel grande conflitto dei grandi e nel piccolo urto intimo che alberga in ogni creatura. La Kristóf è una Lisistrata drammatica e moderna: il suo è un negarsi ai sentimenti per poter conferire loro un valore maggiore. Un negare che afferma: nell’assenza di vita si ritrova la vita. Forse.