Non so se vi ricordate quella scena di Good Morning Babilonia. E’ il film dei fratelli Taviani. Hollywood, 1913. E’ il tempo del muto. Griffith sta girando il suo capolavoro: Intolerance. Con lui lavorano due artigiani toscani, bravi a costruire, mani e cervelli in fuga da un’Italia in crisi economica. Non è facile stare lì. La reputazione degli italiani in quegli anni è bassa, molto bassa. Sono poveracci, sono stracci, sono lontani. Il capo scenografo è un’americano, infastidito da questi due pezzenti che il regista ha voluto nel film, con il risultato di rubare lavoro alle maestranze californiane. Non importa che i due siano dei veri maestri nel trattare la pietra. L’insulto è quotidiano. Gli italiani lì oltreoceano sono tutti Dago, Guinea, Guido, Mario, Gino, sono puzzolenti e sovversivi, sfaticati e neri. “Gli italiani pancia al sole, e mani sulla pancia”. E’ dopo un altro sputo, un altro segno di disprezzo, che l’artigiano afferra il braccio del fratello e grida, urla, la sua rabbia, il suo orgoglio. “Queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa, Lucca, Firenze… Di chi sei figlio tu ?Noi siamo i figli, dei figli, dei figli di Michelangelo e Leonardo; di chi sei figlio tu?”. Di chi sei figlio tu?
Sono queste mani che ti vengono in mente mentre stai leggendo il saggio di Arturo Diaconale Per l’Italia (Rubettino). Ti vengono in mente perché la domanda principale è ancora quella: di chi siamo figli noi? Di chi sei figlio tu?. Non è solo una questione di identità. E’ l’oroglio. E’ sfuggire alla tentazione che ogni volta ci portiamo dietro di disprezzarci, di vergogliarci di quello che siamo, di ripudiarci per una sorta di masochismo nazionale o per la supponenza della classe dirigente, degli intuellettuali, di molti nostri scrittori, di diversi politici, dei tanti opinionisti che chiacchierano sui giornali e nelle tv di guardare con disprezzo a tutto ciò che puzza d’Italia. Non è che non abbiamo difetti. Ne abbiamo tanti. Lo sa Diaconale. Lo dice. Ma ricorda anche che una nazione non può sempre giocare contro se stessa. Non può non avere un passato e un futuro condiviso. Non può tuffarsi sempre dentro una guerra civile parolaia da Montecchi e Capuleti, da rossi e neri, da guelfi e ghibellini, una guerra civile che preferisce la caduta del tutto per odio verso l’altra parte.
Parlare di nazionalismo è ancora un tabù, perché noi siamo bravi ad aver paura delle parole. Eppure se non ci riconosciamo e non crediamo in qualcosa che si chiama Italia non possiamo neppure permetterci di andare in Europa. Pensate a come di solito ci presentiamo: da vittime o da accattoni, da partigiani e da faziosi, da gente che usa lo scenario europeo come un ring per gli affari di casa. E’ un atteggiamento che i francesi, gli spagnoli, i tedeschi non capisco. Se questi qui sono i primi a sputare sulla loro terra, come facciamo a fidarci di loro? Poi, certo, l’Europa ci mette del suo, visto che sempre di più ama presentarsi con la maschera dell’aguzzino, con il vestito grigio del burocrate, con i cavilli e le tasse, sacrificando in nome dell’apparato il sogno delle nazioni che superano i propri confini e le proprie miserie per costruire qualcosa di più grande, per costruire l’impossibile, l’ideale.
L’Italia è un Paese strano. E’ come certe squadre di calcio che non riescono a valorizzarsi come gruppo, non si passano la palla, non riconoscono un modulo di gioco. La speranza e l’orgoglio è arrivaot sempre dai singoli, dai pochi, da certi individui che resistono a tutto e sognano e immaginano un futuro e mettono le mani nel fango per cercare in quel fango la materia prima utile a costruire un domani. Ogni volta sono stati loro a trovare il colpo d’ala per uscire da una crisi, da uno stallo. Sono gli stessi che resistono giorno dopo giorni, contro quel mostro grasso e vorace che è lo Stato italiano. Non sono pochi. Sono molto più di quanto di pensa. Solo che spesso non si conoscono, non fanno rete, non hanno un punto di riferimento e troppe volte lavorano da soli per un senso di disincanto, di sfiducia, di stanchezza.
Nel suo libro però Diaconale ricorda che quando si ritrovano, si incontrano, riescono a cambiare il destino. Lo fanno magari per disperazione, perché si rendono conto con lucidità che il tempo è scaduto o perché davvero è ora o mai più. E’ in quei momenti eccezionali che scatta l’orgoglio, che si mettono da parte pregiudizi e antichi rancori, antipatie e sguardi diversi. E’ in quei momenti senza rete, dove ci si gioca il tutto per tutto, che qualcosa scatta, come se per un attimo anche chi crede nello Stato e nella classe, nella Chiesa e nell’anarchia prende dal liberalismo la sua parte più bella, quella che forse è in molti di noi: la voglia di rischiare, la voglia di andare a cercare l’impossibile, senza scorciatoie, ma con il sudore, con il talento, con il coraggio, con l’intrapredenza. Quasi sembra di riconoscersi in una nazione.
E’ successo negli anni ’50 in un paese sfregiato dalle macerie e dal sangue. Pietra su pietra, a rimettere in piedi tutto, ritracciando rotte, scavando nell’Appennino un’autostrada da Milano a Napoli, come simbolo di un’unità perduta. E’ successo ancora prima, quando un “gioventù ribelle” è andata a morire a vent’anni per un’idea vaga d’Italia. Quel Risorgimento costruito con il sangue, con le parole, con l’ossessione di voler a tutti i costi mettere sul piatto politico delle cancellerie europee un tema che nessuno voleva affrontare. Ma è un Risorgimento fatto anche di intrighi, di inciuci, di razionalità di sesso, utilizzando ogni mezzo, anche le arti amatorie di una cortigiana dal sangue blu. Il Risorgimento fu impresa di pochi e non fu fatto dai moralisti (neppure Mazzini lo era), ma da una minoranza di sognatori, avventurieri, spie, e tessitori. Senza vergogna, senza Savonarola con il dito alzato.
Di chi siamo figli? E quanto siamo disposti a riconoscerci nell’Italia e per l’Italia. Questo è il quesito del saggio di Diaconale. La risposta è in Good Morning Babilonia.”Queste mani hanno restaurato le cattedrali di Pisa, Lucca, Firenze… Di chi sei figlio tu ?Noi siamo i figli, dei figli, dei figli di Michelangelo e Leonardo; di chi sei figlio tu?”.