“Siete soldati?” urla il militare impettito alla schiera di adolescenti in riga di fronte a lui. “Sì signor sergente” rispondono quattordici ragazzini infagottati nelle divise della Wehrmacht, berretto d’ordinanza calcato in testa e un distintivo con l’aquila e la svastica sul petto. È il primo incontro tra il sergente Carl Rasmussen e i prigionieri assegnati alla sua unità per una missione poco meno che suicida.
Land of Mine – Sotto la sabbia è il film del regista danese Martin Zandvliet, nei cinema italiani dal 24 marzo, che racconta la vera storia dei duemilaseicento soldati tedeschi costretti a sminare le coste della Danimarca nell’immediato dopoguerra. Perlopiù giovani tra i 15 e i 18 anni, qualcuno anche più piccolo, arruolati in fretta e furia nei mesi precedenti alla disfatta del Reich. Metà di loro finiranno uccisi o mutilati.
Il titolo italiano perde l’intraducibile doppio senso dell’edizione inglese e recupera l’originale Under sandet. “Sotto la sabbia”, a una profondità di appena venti centimetri, giacciono due milioni di mine antiuomo che i tedeschi hanno disseminato lungo la costa occidentale del Paese, dopo l’invasione del 1940. Una quantità di ordigni enorme, superiore a quella di qualsiasi altra nazione occupata, perché i comandi dell’Asse credono che la Danimarca sia il ventre molle del Vallo Atlantico, scenario ideale per lo sbarco alleato.
Finite le ostilità, il compito di ripulire i congegni inesplosi tocca agli ex invasori: attribuendo ai prigionieri un’improbabile qualifica di “volontari”, le autorità danesi e il comando militare britannico aggirano la convenzione di Ginevra impegnandoli in un lavoro di massimo rischio con una minima preparazione. È una pagina spaventosa, finora rimossa, nella vicenda bellica di un popolo del quale la storiografia ha tramandato soprattutto – e non a torto – episodi di dignità e coraggio di fronte all’invasore, come gli sforzi per evacuare la piccola comunità ebraica nella vicina Svezia. Danesi brava gente, insomma.
Difficile, del resto, motivare la volontà di rivalsa con le ferite della guerra. L’invasione della Danimarca si risolve in un giorno e con un minimo spargimento di sangue, il tempo che il re Cristiano X firmi la capitolazione alle truppe nemiche. Fino all’imposizione della legge marziale nel 1943 le istituzioni locali continuano a funzionare, al punto che – caso unico nell’Europa nazista – i tedeschi autorizzano regolari elezioni (vinte dai socialdemocratici con un’affluenza record). La Germania vede nell’agricoltura danese una via di salvezza e l’amministrazione occupante, pur guidata da un giurista delle SS come Werner Best, chiuderà un occhio perfino sull’applicazione delle misure anti-ebraiche.
A tutto questo, nel film di Zandvliet, non si dedica nemmeno un accenno. Nessuna scusante alla mite ferocia esercitata sugli sconfitti. Nessuna riflessione sulle colpe della Germania o sulla responsabilità dei padri, ma neppure sulla guerra in generale. Nessuna rivelazione salvifica, se non quella del sottufficiale danese, un sergente di ferro che si sorprenderà a scoprire volti di bambino dietro all’odiata divisa nemica: “Sei un uomo?” diventa a quel punto la sua domanda, urlata in faccia ad un ragazzino in lacrime.
Viene in mente, per contrasto, il paragone con uno stupendo film tedesco del 1959, Il Ponte (Die Brücke): anche lì i protagonisti sono un manipolo di ragazzini in armi “dalla parte sbagliata della Storia”, ma c’è sullo sfondo una progressiva presa di coscienza che qui è del tutto assente. I piccoli uomini che scavano nella sabbia non sono ragazzi della via Pal infilatisi in un gioco troppo grande e terribile, ma vittime di una tragedia di cui non hanno consapevolezza.
In Land of Mine la narrazione mantiene una tensione costante affidandosi a un taglio da documentario, tutto giocato sul contrasto fra primi piani e campi lunghissimi. Desolate distese d’erba e sabbia fanno da scenario a un dramma che il regista ambienta “in un universo fantastico e idilliaco, contaminato solo dalle detonazioni delle mine”. In effetti, più che nelle poche scene cruente, l’orrore affiora nel quotidiano: il senso di claustrofobia di una prigione senza sbarre, la routine dei gesti compiuti dagli sminatori, mai abbastanza attenti a non farsi prendere dalla frenesia o dall’eccessiva confidenza, a reprimere il tremito delle mani dopo giorni di fame e botte.
Il finale consolatorio, fin troppo costruito, non attenua il senso di spaesamento dello spettatore di fronte a una verità che nessuno poteva affermare di conoscere: un’increspatura appena in quell’oceano di incubi che fu il secondo conflitto mondiale, eppure, senza dubbio, una storia che meritava di essere raccontata.