Se pure un certo Occidente si ostina a non volerci fare i conti, la nuova configurazione globale è già realtà. Quello in cui viviamo è il mondo “post Pittsburgh” e sulla scena è impossibile non notare e prendere le misure con un Paese che reclama sempre più il ruolo del protagonista: la Cina. Con la contezza del politico di lungo corso, ce lo racconta Gianni De Michelis, già ministro degli Affari Esteri dal 1989 al 1992 e da sempre lucido osservatore dei rapporti tra l’Europa e l’Asia.
Obama e Xi Jinping, il nuovo leader del colosso cinese, sono i due uomini che guideranno l’economia mondiale per i prossimi anni. L’orizzonte strategico Usa si è ormai definitivamente spostato dall’Atlantico al Pacifico?
Quello che conta è che Obama, nonostante abbia rivinto le elezioni, invece di essere nelle condizioni di garantire una governance adeguata oltre i confini per gli equilibri del mondo, rischia di essere costretto a occuparsi, probabilmente per l’intero secondo quadriennio, degli ostacoli che il modello politico con cui ha vinto comporta. Un modello che, come quello europeo e delle democrazie occidentali in genere, implica un blocco. Basti pensare al problema del cosiddetto fiscal cliff, al livello di debito, alla contraddizione della polarizzazione tra un Partito repubblicano che controlla la Camera dei rappresentanti e un Partito democratico che detiene la Presidenza e il Senato. Queste tipologie di democrazia compiuta, “bottom up” e non “top down”, rischiano di rivelarsi inadeguate per la governance globale…
La Cina si è ormai senza dubbio affermata come lo Stato leader in Asia. È in atto anche il sorpasso degli Stati Uniti?
Sì, la nuova configurazione del mondo è già realtà. Però adesso devono essere determinate le logiche per governare questa nuova situazione globale. È questo il tema dei prossimi dieci-vent’anni e il modello cinese rischia di avere un netto vantaggio rispetto a quello delle democrazie occidentali.
Xi Jinping è il nuovo leader cinese. Pedigree specchiatamente comunista ma attitudini riformiste e pragmatiche, è il volto di un nuovo corso della Cina o è solo un’apparenza di cambiamento?
Xi Jinping è espressione di un meccanismo “top down” e non di un’elezione “dal basso”, ma è comunque il risultato di una scelta di un gruppo di persone e il portato di una certa dialettica all’interno del gruppo dirigente del partito comunista, che in realtà più che comunista è soprattutto confuciano. Questo gruppo da ormai vent’anni è riuscito a gestire in maniera molto fluida la transizione da una classe dirigente all’altra, tanto che si sa già chi potrebbe succedere alla cosiddetta quinta generazione di leader, tra una decina di anni, nel 2022. È stata anche fissata una regola per la quale non si possono ricoprire incarichi di vertice, nel partito o nel governo, dopo i 65 anni di età, per cui parecchi leader nel corso del prossimo quinquennio dovranno ritirarsi e hanno così messo a punto un meccanismo di selezione di nuovi dirigenti.
Sempre una scelta “top down”?
Sì, anche perché probabilmente non ci saranno in Cina nei prossimi dieci-vent’anni delle spinte nella direzione della richiesta di una democrazia più simile a quella occidentale, per la semplice ragione che ancora per un paio di decenni il grosso della popolazione cinese – e soprattutto la parte più giovane – sarà concentrata nell’arricchirsi e nell’avere successo sul piano personale. Questo consentirà di far funzionare il meccanismo selettivo cinese attuale, ovviamente in parte non democratico, ma che in un certo senso avvantaggerà il colosso asiatico.
In che senso?
Le classi dirigenti di tutti i principali Paesi – sia quelli cosiddetti sviluppati del passato, sia quelli emergenti o probabilmente già emersi del futuro o del presente – hanno il problema di adeguare la propria governance a un mondo la cui configurazione è assolutamente cambiata. In termini di funzionamento il meccanismo selettivo meno democratico della Cina costituirà un vantaggio rispetto a quello delle democrazie consolidate, che rischiano di essere meno adeguate a garantire una guida corrispondente alle esigenze di una nuova situazione globale.
Quali effetti avrà la politica cinese degli investimenti in Africa? Rappresenta un’opportunità di sviluppo per i Paesi africani o va letta come una forma di neocolonialismo anche un po’ rapace?
Gli investimenti cinesi sono una grande occasione di sviluppo e crescita per l’intera Africa, rimasta indietro, nonostante il Sudafrica – la democrazia principale e più efficace di tutto il continente subsahariano – sia stato aggiunto ai cosiddetti Bric, ora appunto Brics. Ricordo che vent’anni fa, quando facevo il ministro degli Esteri, ero assolutamente convinto che fosse il momento di concentrarsi su Asia ed Europa orientale e non ancora sull’Africa, sicuro che non sarebbe stata un soggetto “interessante” prima di almeno un secolo. Ho sbagliato drammaticamente i tempi. Sono passati appena vent’anni e il continente africano è diventato – anche grazie a queste scelte della Cina e pure di India, Brasile e in parte Europa e Stati Uniti – un Paese che peserà sempre di più nel corso dei prossimi anni sugli equilibri del mondo. Quello che conta non è tanto che l’approccio cinese possa apparire una forma di neocolonialismo, ma il fatto che l’intervento della Cina offra all’Africa l’opportunità di riuscire, sia pure in maniera differenziata e graduale, a diventare un soggetto centrale e non periferico, in virtù soprattutto dello sfruttamento delle risorse naturali, dal petrolio al gas ai giacimenti minerari presenti in misura assolutamente sproporzionata.
Come si evolverà l’annoso conflitto Cina-Taiwan? Esiste il rischio che possa mettere a repentaglio gli equilibri mondiali?
No, credo che quello Cina-Taiwan, destinato a metterci dieci-vent’anni per concludersi del tutto, sia un conflitto ormai risolto. Probabilmente la Cina applicherà lo stesso modello che ha applicato a Hong Kong, che è per così dire tornata cinese dal 1997, oltre quindici anni fa. Nel frattempo anche Taiwan è stata in qualche maniera riattirata nell’orbita cinese, soprattutto perché l’economia taiwanese è diventata assolutamente integrata con quella della Cina.
Sono circa ven’anni che gli intellettuali occidentali sostengono che il progresso economico non possa non accompagnarsi naturalmente anche a un aumento dei diritti civili e sindacali e delle libertà individuali. Questo in Cina non è avvenuto. Dov’è l’errore di calcolo?
Non parlerei di errore, in parte l’assioma si è in realtà verificato. Il dibattito si è aperto, soprattutto alla vigilia del congresso del partito comunista, e in qualche maniera riguarderà l’intero decennio della nuova leadership: il cuore della discussione è la riforma politica, si sono scontrate le varie posizioni – la minoranza maoista, il gruppo centrista e quello che lotta per una evoluzione più rapida nella direzione di meccanismi di democrazia. Naturalmente però è difficile pensare che un Paese grande come la Cina, che ha un miliardo e quattrocento milioni circa di abitanti, possa tranquillamente incamminarsi verso una democrazia di modello per così dire occidentale. Con ogni probabilità saranno indispensabili dei correttivi.
Le recenti, prime proteste sindacali in piazza si possono leggere come un avvio sulla strada della democrazia di modello occidentale?
Sicuramente. Ci sono stati degli episodi molto indicativi in questo senso. Per esempio, in una cittadina del Guandong, il segretario del Partito comunista della regione, Wang Yang, personalità probabilmente destinata ad avere un ruolo importante, ha accompagnato le richieste sindacali della base contro il gruppo dirigente del partito, accettando compromessi. Questa è la direzione di marcia del prossimo futuro.
Un pronostico sui tempi di questo processo?
Difficile dire se saranno brevi. Ovviamente il gruppo dirigente del partito cercherà di difendere la propria supremazia, ma la questione sarà anche molto legata al fatto che nella memoria storica del singolo cinese è estremamente presente il rischio dello spappolamento dello Stato. Questa logica della sicurezza dell’equilibrio da anteporre sempre e comunque porta tendenzialmente a evitare tensioni troppo forti, garantendo un’armonia nello sviluppo non solo economico, ma anche politico. Sarà probabilmente tale approccio a prevalere e tutto sommato nessuno potrebbe preferire l’avere una Cina che si disentegra o esplode.
Quanto può reggere a questi ritmi la crescita economica cinese?
Per adesso la crescita regge. I dati dell’ultimo trimestre del 2012 – grazie anche a una gestione economica oculata – hanno dimostrato una ripresa, mentre sembrava ci fosse un rallentamento molto forte. Naturalmente la crescita è destinata per ragioni strutturali in qualche maniera a rallentare, perché il dividendo demografico della Cina si avvia a diventare negativo e questo nel lungo periodo – venti o trent’anni circa – costringerà tutta l’economia cinese a frenare, però nel breve credo che reggerà.
Qual è lo stato dei rapporti Italia-Cina?
Il rapporto Italia-Cina non esiste, esiste quello Europa-Cina ed è caratterizzato dalle situazioni interne all’Europa. La Germania, per esempio, potrà giocare un ruolo anche in Cina, un Paese come l’Italia, invece, avendo ormai perso l’occasione negli anni ’90, ha solo una possibilità: quella di attirare capitali cinesi in Italia. Ci dovremmo concentrare su questo, ma l’impressione è che non sia affatto quello che stiamo facendo.
Esiste una doppia faccia del “made in italy”, da un lato la necessità di tutelarlo dalla contraffazione – anche cinese – e dall’altro quella di conquistare un potenziale mercato sconfinato come è quello della Cina?
Il settore del mercato cinese che può interessare a una parte dell’economia italiana è quello del lusso, sul quale ci siamo già insinuati, ma che presenta enormi debolezze europee, o, meglio, italiane in Europa. Per esempio, noi non siamo stati capaci a creare delle griffe del lusso come invece hanno saputo fare i francesi. O, ancora, nel settore del “food and beverage”, dove pure potremmo avere delle carte da giocare, siamo completamente privi delle catene di supermercati e ipermercati che sarebbero indispensabili ma sono scomparsi completamente.
Quindi, qual è la sfida che possiamo tentare di correre?
Dobbiamo giocare sulle importazioni cinesi. E, per fare un esempio concreto, non si capisce perché dobbiamo pensare di vendere inevitabilmente l’Alitalia solo ai francesi, che ovviamente poi la userebbero nel loro interesse. Visto che una delle nostre carte potenzialmente più strategiche da giocare nel prossimo futuro è il turismo, perché dobbiamo aprioristicamente escludere che, invece che con l’Air France, l’Alitalia non possa stringere alleanze con le compagnie aeree del Golfo, da Qatar Airways a Etihad Airways o Emirates, e naturalmente anche con quelle cinesi, come la Hainan Airlines che sarebbe interessata? Ma evidentemente noi su questo terreno non abbiamo ancora capito che la configurazione del mondo è già cambiata irreversibilmente. Così continuiamo a brigare sulla compagnia aerea olandese o francese, senza avere chiare le possibilità che ci si aprono e ci si sono già aperte rispetto alla nuova realtà globale. Dobbiamo mettercelo in testa, ormai viviamo nel mondo “post Pittsburgh”.