“Questo sono capace di farlo anch’io”. Oramai pure l’ottusa difesa estrema del parvenu si è fatta slogan per non volerne sapere di più, per giocare col sarcasmo posticipando la sfida che l’opera d’arte moderna propone. Figuriamoci il monocromo, poi! E che ci vuole a gettare un colore sulla tela? Forse non solo la pigrizia di dover imbastire un costrutto antecedente, il rassicurante sostegno di linee da seguire, i limiti confortevoli del rappresentabile, tradotti in schemi da ricalcare. Yves Klein nacque a Nizza nel 1928 e transitò su questo mondo per soli 34 anni, intensissimi e funambolici. L’artista è oggi particolarmente associato alla monocromia blu, nonché a stravaganze e provocazioni come l’iconico Salto nel vuoto, fotomontaggio di un’audace tentazione solipsistica, simulazione della necessità di superare ogni confine imposto, foss’anche la legge di gravità (in questo venendo dopo Icaro, ma anticipando i relativismi del film Matrix). L’occhio abituato pigramente a valutare un’opera d’arte in base al pendant con l’arredo del salotto, potrà forse apprezzare IKB, ovvero l’intenso colore blu, frutto di una ricerca alchemica incessante, l’originale pigmento indissolubilmente legato all’autore, ma è chiaro che l’approccio estetico-decorativo non è propriamente il più significativo, in questo caso; Infatti in queste opere c’è una componente immateriale che si risolve solo accidentalmente in tangibilità – quasi restasse enigma finale per l’esploratore – c’è lo spazio puro liofilizzato solo per esigenze espressive in riquadro. Limite che l’artista cercherà con ogni mezzo di superare.
La “Proclamazione dell’epoca blu”, secondo i piani di Klein, avrebbe dovuto rappresentare una trasfigurazione mistica e sensoriale dello spirito cosmico, partendo da quaggiù, l’immaterialità di un ordine sincretico e dissipatore: Buddismo, Cristianesimo delle origini, ascetismo, discipline esoteriche, arti marziali, Gurdjieff e Pascal, tutto concorre a rimodulare lo sguardo, che sempre più si allontana dalla materia, che sempre più utilizza strumentalmente quest’ultima per indagare l’inaccessibile, l’eterna, immutabile, infinita vacuità. Yves Klein dà spesso di matto, c’è una megalomania pericolosa nel suo approccio demiurgico all’arte, un costante intento di passare il segno, di armonizzare tutto annichilendo sfumature e particolarismi. Qualcosa di totalitario e liberatorio c’è nell’atto di ricoprire, fondere, disfare, marchiare. Il colore della Terra visto da un altro pianeta, l’inconcludenza sostanziale delle rimpicciolite gesta umane viste da lassù. Si dice che l’arte contemporanea – si badi bene, quella in oggetto è degli anni ‘50/’60 del secolo scorso – sia incomprensibile; ecco, con Klein l’incomprensibile diventa un manifesto d’intenti nichilista e al tempo stesso salvifico ed estatico, un’ammissione di superbia sconcertante. Formalmente nella sua arte c’è il suprematismo di Malevic, caratterizzato dall’estrema sintesi monocromatica, ma pure Duchamp per l’utilizzo di supporti alternativi al quadro, e Lucio Fontana per la vocazione vulcanica – da Efesto, Dio del fuoco e delle fucine – alle pratiche ignee. Oltre a ciò l’interesse alchemico e le suggestioni rosacrociane portarono l’artista ad operare utilizzando l’oro, come ben esemplificato dall’opera MG18. Qui, alle suggestioni mosaicali bizantine, si aggiunge l’azzeramento di quanto creato da Gustav Klimt, o forse il suo superamento ritualistico, come contrappeso alla follia di voler battezzare con nomi immutabili il vuoto.
La caduta dei criteri valoriali annunciata da Nietzsche trova nel cerimoniale di cessione organizzato da Klein una risposta radicale: pontifex novus, facitore di ponti ai quali manca la solidità di un approdo certo all’altra sponda, egli si farà carico di cedere sovranità in cambio di una sospensione fluttuante nell’assenza. Fuoco, aria ed acqua – della terra palpabile non seppe che farsene – diventano quindi elementi necessari per inaugurare architetture spaziali informi, sciolte essenze variabili da liberare affinché un ordine superiore possa farne ciò che vuole. L’artista quindi, più che un creatore è in questo caso un liberatore di energie. “Ora voglio andare oltre l’arte – oltre la sensibilità – oltre la vita. Voglio andare nel vuoto: La mia vita dovrebbe essere come la mia sinfonia del 1949, una nota continua, liberata dall’inizio alla fine, legata ed eterna al tempo stesso perché essa non ha inizio né fine… Voglio morire e voglio che si dica di me: Ha vissuto perciò vive”. Le parole di un folle, il testamento disperso nel cosmo di un coraggiosissimo folle.
@barbadilloit