Inutile nasconderselo: ciò che avviene oltreoceano, negli Stati Uniti, è destinato a condizionare anche la vita del Vecchio Continente, in particolare quella di un Paese come il nostro, sempre pronto ad assorbire mode, linguaggi e tic d’importazione.
E’ perciò opportuno, ben al di là del contesto “locale” e del risultato conclusivo, fissare la nostra attenzione sulle primarie statunitensi, in particolare su due candidati, espressione di schieramenti contrapposti, il repubblicano Donald Trump ed il democratico Bernie Sanders. Grazie a Trump e a Sanders il confronto interno ai due rispettivi partiti, spesso banale e scontato, ha assunto infatti tratti accesi e del tutto originali su sui vale la pena attardarsi, magari con un occhio rivolto alla nostra politica nazionale.
Per quanto politicamente e culturalmente ben lontani, i due contendenti sono assimilati da una comune sensibilità: quella di essere entrambi la voce di un’ America esclusa, non rappresentata, distante dagli interessi dei centri di potere.
Trump fa appello all’America profonda, che può risorgere, alla piccola borghesia, segnata dalle crisi, e al nuovo proletariato costituito da pensionati, da ex militari, da quanti sono stati “espulsi” dal sistema produttivo a seguito della crisi del 2008. Sono, in fondo, gli stessi “emarginati” a cui si rivolge il “socialista” Sanders, che offre loro la speranza di una socialità diffusa, alternativa anche al falso progressismo dei democratici “alla Clinton”. Trump individua negli immigrati che “rubano posti di lavoro” e nella globalizzazione che li esporta le ragioni profonde della crisi americana. Sanders vede nelle disparità sociali crescenti e nel crescente potere dell’oligarchia finanziaria i problemi fondamentali cui si trova di fronte la società statunitense. Trump, con il suo slang politicamente scorretto e provocatorio, non evoca solo muri contro i “non-nativi”, ma dichiara di volere tassare Wall Street, colpendo gli edge funds, e si dice a favore dell’assistenza sanitaria universale, beccandosi gli apprezzamenti del Nobel per l’economia Paul Krugman, con un editoriale sul “New York Times” , intitolato, senza mezzi termini, “Sull’economia Donald Trump ha ragione”. Sanders evoca l’economia sociale di mercato ed i modelli della vecchia socialdemocrazia europea.
C’è sia in Trump che in Sanders la risposta a domande di autenticità, di chiarezza, di radicalità fino ad oggi soffocate dalla sostanziale omogeneità dei due partiti statunitensi maggioritari e dei relativi gruppi dirigenti. Fatte le debite tare sono le stesse domande che segnano l’opinione pubblica italiana, se non europea. Per questo quanto avviene oltreoceano non deve essere guardato con sufficienza.
Se anche in politica vale la regola che ciò che oggi avviene in USA, domani avverrà probabilmente da noi, gli esempi di Trump e di Sanders fanno presagire un marcato radicalismo anche per il Vecchio Continente, segno – come nelle “primarie a stelle e strisce” – di una politica appassionata e non omologata, forte nei contenuti e nei leader di riferimento. Con buona pace per chi continua a rincorrere inesistenti elettorati “moderati” ed improbabili aree centriste, utili per tutte le stagioni e tutti gli schieramenti e perciò sempre più politicamente inadeguate a cogliere le ragioni profonde della crisi contemporanea e a rispondere alle pressanti domande della gente.