Blu. Blu malinconia che confonde lago e cielo. Dettaglio: lo schermo di un portatile poggiato sul profilo di due gambe incrociate di donna, viva. Particolare: un uomo di spalle, parla dallo schermo: è morto. In questa scena è tutto il film “La corrispondenza” del maestro Giuseppe Tornatore.
L’ultimo film del regista premio Oscar si propone elegia dell’assenza. Distici visivi si allungano dallo schermo allo spettatore a celebrare la malinconia di un amore impossibile. Le parole preziose e rare che, nella tradizione elegiaca, hanno racchiuso castità e desiderio nel recinto esclusivo di un poeta fedele, testardamente fedele, ad una donna sua musa e delirio, nel film di Tornatore dicono anch’esse un lamento funebre in cui la malinconia erotica di uno scienziato e della sua allieva amante lascia il posto a vortici verbali non preziosi né tantomeno rari, costrette come sono- le parole- nel mondo antierotico dei sistemi Android. Parole scritte e parole videate, parole a sorpresa e parole cercate, parole puntuali e parole in ritardo, parole nette e parole sgranate. Parole d’amore da chi non c’è più a chi è rimasto. Parole manette per fare dell’amore prigionia.
E siccome in parole il film già annaspava, Tornatore ha accettato anche l’invito a scrivere un romanzo dal film, “La corrispondenza” (Sellerio Editore, 2016).
Di farsi – per parafrasare Tornatore stesso- democratico del vento. Dove vento sta a dire l’alito verbale (o verboso?) dei commenti al film. Tornatore si riscrive e di corrispondenze ne regala al suo pubblico due, quella del film e quella di un libro. Solo che leggendo il libro pare di rivedere il film. “La corrispondenza” libro anche per chi non ha mai tenuto tra le mani una sceneggiatura non può assolutamente dirsi romanzo, tutt’al più riscrittura in capitoli delle scene del film. Nessuna emozione letteraria dalle pagine.
Un’urgenza del regista di spiegare le ragioni dell’arte? Tornatore scrive “Un’originale e formidabile opportunità per restituire alla parola scritta la supremazia usurpata dall’immagine”. Solo che le ragioni dell’arte non si spiegano. Come Tornatore stesso ha raccontato nella meraviglia che è stato il film “La migliore offerta”. In questo suo ultimo film, in effetti, immagini e parole stanno su un piano assolutamente impari. Ma a danno delle prime.
Oppure il libro, lungi dall’essere altro dal film, testimonia il perdonabile e fascinoso narcisismo di un genio della macchina da presa che mal sopporterebbe incomprensioni sul senso dell’opera? Perché Giuseppe Tornatore è il cinema. Il cinema nella sua più seducente e artigianale natura. Tornatore è il cinema che sa farsi reale e visionario nello stesso tempo. Non ha bisogno di chiarimenti, di risposte, di traduzioni. Non c’è immagine dei film di Tornatore, anche quelli che paiono attirare più critiche, che sia irrisolta o incerta. Vedere un film di Tornatore è godere dell’Arte. E se qualche incomprensione un film –questo, “La corrispondenza”– ha attirato non è certo per le immagini. Anzi. Sono le parole, i dialoghi ad essere incerti e usurpatori.
“La corrispondenza” ha un’idea forte: raccontare un nuovo copernicanesimo. L’uomo che di fronte alle infinite possibilità dell’universo in rete non “si spaura” ma lo possiede per rendersi infinito ed eterno. L’amore è solo un pretesto. O meglio l’unico pretesto che l’uomo ha per eternarsi. Solo l’amore può divinizzarci. Renderci eterni. Corrispondere all’altro pur nell’assenza. Amor sacro, dunque. Dove Assenza è Essenza del sacro. Non fu Psiche quanto meno sprovveduta nel violare l’ignoranza del dio? E non è assenza di piacere carnale il Mistero dell’amore cristiano? La sacralità di un amore proiettato nell’universo puntellato di stelle ha bisogno di occhi e di silenzio. Suonerie di IPhone e bip di tastiere e gracchi di dischetti caricati sul PC sono eresie. Emoticon, scarabocchi su display, messaggi e videomessaggi sono empietà. Amor profano, dunque. Un amore che pur nella malinconia struggente di una perdita, nel vuoto in cui si declina la fine di un’abitudine di incontri e baci e mani e sguardi, si banalizza in parole mielose, ossessive, stancanti, anacronistiche.
Dal libro (o dal film, è uguale): “ Si ferma, parlare non le basta. Punta sul suo viso la piccola videocamera del pc. Poi fa partire la registrazione. Fissa il computer….- Finchè ci sei stato la galassia della mia vita stava in piedi da qualche parte. Adesso precipita nel vuoto”
La galassia della mia vita. Lui stregone, lei kamikaze. “Ti penso e ti avvolgo tra le mie braccia”. Anima mia e amore mio a iosa. Se è concesso essere tentati da una lettura ironica delle corrispondenze virtuali, allora “La corrispondenza” è un manifesto contro il lessico amoroso dei nuovi barbari. Ma il film non concede tale tentazione. Né tantomeno il libro. Che proprio per evitare uno scherzo del diavolo della logorrea in rete pare essere stato pubblicato.
Perché allora non lasciare che le immagini ben fatte del film rimangano nella memoria del pubblico in virtù di quel miracolo della memoria selettiva che farà dimenticare tante zuccherose parole e lascerà negli occhi il blu malinconico del lago e del cielo davanti ad una donna innamorata?
Il segreto del film (o del libro è uguale) sta in questa battuta “ La mente umana non è fatta per capire l’infinito, come non è fatta per capire l’amore. Quindi vorrei davvero che tu non piangessi…”. O che non parlassi. Il silenzio. Che il più delle volte è la vera corrispondenza.