“Accattò, come lo voi er trasporto funebre?” “Con tutti li amici dietro che ridono, e il primo che piagne paga da bere a tutti”. Chissà se a qualcuno scapperà una risata alle esequie di Franco Citti, l’intramontabile attore pasoliniano, morto all’età di 80 anni dopo una lunga malattia. Da borgataro e muratore ad “Accattone”, protagonista dell’esordio cinematografico di Pier Paolo Pasolini, che tolse quel “ragazzo di vita” dalla strada dopo un incontro in una pizzeria di Torpignattara per farlo diventare uno dei suoi attori “feticcio”, insieme a Ninetto Davoli. Da quel 1961 per Citti si aprirono le porte del cinema pasoliniano: recitò in Mamma Roma e in Porcile, vestì i panni di un barbarico Edipo Re e divenne ser Ciappelletto nel “Decameron” per poi travestirsi da angelo del male negli altri due capitoli della trilogia della vita: “I racconti di Canterbury”, dove interpretò Satana in persona, e “Il fiore della Mille e una notte”, dove fu demone.
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E demone fu, per tutta la vita, incapace di adattarsi alla notorietà e fedele all’insegnamento di anticonformismo del suo mentore. Dopo un’adolescenza passata tra «ladri, truffatori, papponi, mignotte, spie, ruffiani, cornuti e ubriaconi», come ricordava lui stesso, l’incontro con Pasolini gli insegnò che la sua “vita violenta”, condivisa con tanti suoi compari di borgata, poteva diventare racconto di una figura antropologica in via d’estinzione per l’urbanizzazione selvaggia e il consolidarsi, a cavallo degli anni del boom economico, di quella società dei consumi dove persino i farabutti e gli emarginati sono destinati al cinismo del piattume borghese. Nasce così una maschera che, come suggerisce la trama, non ha scampo: Accattone, ladro e ruffiano, si innamorerà di Stella, una ragazza che inizialmente avrebbe voluto far prostituire. Tenta il riscatto cercandosi un lavoro ma non c’è né pentimento né redenzione: ricade nella tentazione di rubare e, in un inseguimento con la polizia, cade dalla motocicletta e muore. Il destino si compie, simbolo di un’innocenza barbarica, più sana, con tutte le contraddizioni del caso, che cede il passo alla finzione delle rappresentazioni di Stato.
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Al di là della simbiosi umana e professionale con Pasolini, Citti ha recitato in numerosi film, come Todo modo di Elio Petri o nel terzo capitolo della saga del Padrino. Ma lavorò anche in teatro, con Carmelo Bene. L’assassinio di Pasolini lo privò del suo mentore, e sostenne sempre la tesi che non fu solo il minorenne Pino Pelosi a massacrare il poeta all’Idroscalo di Ostia. Invecchiando, tra i solchi di quelle rughe che gli scavavano il volto si leggeva l’amarezza di un tempo passato, in cui l’estetismo rude, borgataro e decadente visto in “Accattone” non aveva più ragione d’esistere. Emblema della completa identificazione di un attore con il alter ego scenico, Franco Citti era Accattone, senza bisogno di interpretarlo, senza finzioni, senza la possibilità di edulcorare con la retorica la realtà delle borgate romane degli anni Sessanta. Fuori luogo e fuori posto, allergico – per natura e cultura – a ogni conventicola radical chic, fu fedele al suo maestro, anche dopo la morte di PPP. «Voglio morire come i Faraoni, con tutto l’oro addosso», dice Accattone guardando Castel Sant’Angelo. Franco Citti è morto nella sua casa, senza oro, e nemmeno dopo un inseguimento con la polizia. Accattone resterà vivo, testimonianza di un poeta e di un borgataro che, come gli ricordò Carmelo Bene, riusciva a “essere un capolavoro”. Mancato, forse. Ma pur sempre un capolavoro.