Il confronto sciiti-sunniti con la rottura delle relazioni diplomatiche tra Riad e Teheran è il sintomo di un malessere profondo, una delle ragioni della disgregazione di interi stati nel Siraq, di sofferenze inaudite per milioni di persone, avvelena da decenni le relazioni internazionali e rappresenta una delle cause profonde del terrorismo, investendo in pieno le contraddizioni dell’Occidente.
Nello scontro tra le due potenze del Golfo si combatte una sorta di “guerra di religione” che lacera sette Paesi: Siria, Iraq, Yemen, Bahrain, Libano, Afghanistan, Pakistan. Tra gli alleati dei sauditi alcuni – Bahrain, Sudan ed Emirati – hanno rotto le relazioni con l’Iran o richiamato gli ambasciatori, mentre Riad sospendeva i collegamenti aerei con Teheran. In Iraq moschee sunnite sono state attaccate. Tutto questo in uno scenario dove quasi ovunque, dal Mediterraneo al Golfo, dal Libano all’Afghanistan, sono presenti eserciti occidentali, russi, caschi blu dell’Onu, navi,aerei e apparati missilistici. Gli appelli alla moderazione rivolti ieri da Stati Uniti, Onu ed Europa ai due contendenti non sono troppo credibili. Qui di spettatori neutrali non ce ne sono. Se l’Iran non accetterà subito la provocazione saudita è solo per un calcolo razionale: aspetta la fine delle sanzioni.
Il mondo musulmano è un grande spazio lacerato da scontri settari che riguardano sciiti e sunniti ma che sconvolgono anche l’universo sunnita. La rivalità più nota è quella tra i Fratelli Musulmani, sostenuti da Qatar e Turchia, e i salafiti, appoggiati dall’Arabia; più recente quella tra i jihadisti di al-Qaeda e il Califfato. È l’intreccio di queste guerre che trascina il Medio Oriente nel caos mentre gli occidentali non riescono a definire una strategia per contrastare il terrorismo che è solo uno di questi conflitti.
L’Arabia, insieme alla Turchia di Erdogan, è il grande malato del Medio Oriente. Sono due Stati con conflitti ai loro confini, dalle frontiere mobili e che dopo avere coltivato sogni di predominio regionale stanno vacillando nell’incertezza di fronte ai loro calcoli sbagliati. Non vincono in Siria e non hanno isolato l’Iran. Però rendono complicata la lotta al Califfato e ogni soluzione negoziata in Siria e Iraq, oltre che in Yemen, diventato una sorta di Vietnam arabo.
Riad non è alleata dell’Isis, anzi ne teme l’ideologia destabilizzante, ma insieme ai jihadisti combatte lo stesso nemico: gli sciiti. Non è una storia di oggi. «Siamo incapaci di condurre delle guerre, tutto quello che sappiamo fare è staccare assegni», diceva qualche anno fa il principe saudita Turki al Feisal, capo dell’intelligence di Riad.
Lo sanno bene gli iraniani, in quanto i sauditi finanziarono la guerra di Saddam Hussein all’Iran negli anni 80 , ma anche i russi perché Riad lubrificò le tasche dei mujaheddin per battere l’Armata Rossa in Afghanistan, con il pieno accordo degli Stati Uniti e del Pakistan. È immaginabile con quale sottile perfidia oggi i russi si propongano come mediatori tra Teheran e Riad.
Le radici del jihadismo contemporaneo vennero messe allora, negli anni’80: fu la vittoria contro l’Urss a rendere baldanzosi i movimenti radicali islamici e a consentire l’insediamento di al-Qaeda. Per l’Arabia la guerra afghana rappresentò un occasione d’oro per propagandare il wahabismo, la sua versione rigorista dell’Islam. Forse è il caso di ricordare che l’11 settembre 2001 la maggioranza degli attentatori delle Due Torri e del Pentagono erano sauditi. Gli americani pensarono di vendicarsi abbattendo l’Emirato dei Talebani a Kabul e poi Saddam Hussein in Iraq: ma fecero un favore all’Iran e agli sciiti mentre la caduta del raìs iracheno fu una pessima notizia per Riad che vedeva in Saddam il leader da opporre a Teheran.
Quello che l’Arabia non ha potuto tollerare è stato l’accordo con Teheran sul nucleare, strenuamente difeso da Obama sia al Congresso che di fronte a Israele. Voltando pagina dopo decenni di ostilità, gli Usa si avvicinavano all’Iran, il nemico storico. Per quanto ampiamente prevista questa intesa ha provocato uno shock nella monarchia: la diplomazia degli assegni per pagare i nemici di Teheran e assicurarsi la protezione americana non bastava più.
Se tagliando la testa all’imam sciita al-Nimr l’Arabia voleva dimostrare all’Occidente che può destabilizzare il Medio Oriente ci è riuscita. Ma difficilmente vincerà una guerra contro l’Iran e i suoi alleati e forse potrebbe perdere anche la pace, cioè i negoziati sulla Siria e lo Yemen.
Riad però può far saltare i negoziati sulla Siria che l’Onu vorrebbe cominciare a fine gennaio. Riaccendendo lo scontro con gli sciiti, la maggioranza che governa a Baghdad, rende più complicato il tentativo di avviare una politica di distensione con i sunniti dopo la riconquista di Ramadi al Califfato. E affonda la pacificazione in Yemen. Di fatto i sauditi, pur non essendo alleati di al-Baghdadi, si comportano come dei sostenitori dell’Isis e soprattutto dimostrano ancora una volta di essere portabandiera di una politica settaria e senza alternative. (dal Sole24ore)