Lo scrittore Yukio Mishima, al secolo Kimitake Hiraoka, nato a Tokyo nel 1925 e morto suicida con rituale seppuku nel 1970, è senza dubbio l’autore giapponese più noto al mondo, certo ancor più di Junichiro Tanizaki o del premio Nobel per la letteratura Yasunari Kabawata, entrambi eccellenti romanzieri, per altro in qualche modo a lui legati ed affini per sensibilità e tematiche trattate. Ben lontano quindi da quella letteratura da sushi bar, tipica ad esempio delle evanescenti opere firmate Banana Yoshimoto. Forse questa notorietà universale di Mishima è da attribuirsi a svariati fattori e non solo al più eclatante, ovvero l’epilogo tragico organizzato insieme alla Società degli Scudi – il suo manipolo di fedelissimi – presso gli uffici del Ministero della Difesa, il 25 Novembre di 45 anni fa. Certo è che questo offrirsi alla morte per motivi patriottici, questo scenografico e premeditato sacrificio (anche se non tutto il “cerimoniale” andò come previsto), rappresentano l’intersecazione perfetta di vita e arte, unendo di fatto, in un solo gesto estremo, letteratura ed azione, romanticismo ed onore, suggestioni orientali (la ritualità evanescente dell’ikebana buddista) e nichilismo europeo (Eros e Morte, rammentando George Bataille). Un finale ingombrante, tetro e solenne, che però rischia di appiattire la figura complessa e sfaccettata di Mishima, sminuendola in fanatico fideismo politico o in ottusa ossessione mortuaria.
Ciò che rende unica ed affascinante la vicenda dello scrittore nipponico, risiede essenzialmente nell’ambiguità teatrale del personaggio pubblico, nella doppiezza sottile in grado di sottendere mondanità e fama con perversioni ed oscuri feticismi, di mimetizzare in un’unica poetica purezza ed oscenità; quanti Mishima sono esistiti in realtà? Quale di queste maschere corrisponde al vero volto? Quello distribuito nei best sellers Feltrinelli e Bompiani o quello edito da carbonare case editrici di estrema destra? C’è l’autore delicato ed impressionista de La voce delle onde e di Sete d’amore, c’è quello omoerotico e narcisista di Colori proibiti (da cui la nota canzone Forbidden colors di Ryuichi Sakamoto e David Sylvian), c’è quello psicologico di Musica e Confessioni di una maschera, quello classicheggiante de Il padiglione d’oro e La coppa d’Apollo; infine c’è il Mishima oltranzista ed “irredentista militante” degli scritti La voce degli spiriti eroici, Sole e acciaio e Lezioni spirituali per giovani samurai. A ciò s’aggiungano le fascinazioni decadentiste europee – Proust, Rilke, Wilde, D’Annunzio – i soggiorni salottieri newyorkesi e parigini, la venerazione controcorrente ed antimoderna per la divinità imperiale, il dialogo tumultuoso con i sessantottini, l’esibizionismo estetizzante – si concesse come modello, coperto di rose o trafitto dalle frecce come San Sebastiano, per il fotografo Eikoh Hosoe – il culto del corpo che ne fece un egotico “palestrato” ed il matrimonio un po’ ipocrita, opacizzato dall’omosessualità sottaciuta. Confessioni schizofreniche di una maschera, dunque, non semplici da decifrare in un percorso coerente. Cercheremo perciò di fare luce sul personaggio, concentrando l’attenzione verso la summa testamentaria del pensiero mishimiano, ovvero quel capolavoro assoluto e relativamente poco letto che è Il mare della fertilità.
Composta da quattro libri – Neve di primavera, Cavalli in fuga, Il tempio dell’alba e La decomposizione dell’angelo (tradotto anche come Lo specchio degli inganni) – la tetralogia si pone al lettore come un viaggio metafisico, a più livelli di lettura, nella storia recente del Giappone. Un tragitto, al contempo realistico e visionario, intrecciato al percorso esistenziale dell’unico protagonista/filo conduttore presente dall’inizio alla fine, ovvero il razionale ed anonimo magistrato Shigekuni Honda. Nel primo atto le fini tessiture della trama sono rivolte al coetaneo di Honda, il diciottenne, delicato ed efebico, Kiyoaki, il quale morirà ventenne vittima della propria debolezza e dell’amore impossibile per Satoko: “Sulla parte del fianco di solito nascosta dall’avambraccio, quella esterna rispetto al capezzolo simile a un tenue bocciolo di ciliegio, Honda scorse così un gruppetto di tre piccolissimi nei. Erano degli strani indizi sulla pelle di Kiyoaki. Si conoscevano ormai da anni, e l’improvvisa scoperta di quei nei fu per Honda come se l’amico l’avesse avventatamente messo al corrente di un segreto.” Questo dettaglio epidermico, un particolare che verrà evidenziato, tra pudore e stupore, come filo rosso nel labirintico evolversi degli altri capitoli, è la chiave per intendere l’ossessione esoterica latente nell’intero impianto narrativo, lo slittamento inevitabile di una reincarnazione che si dimostrerà illusoria. In Cavalli in fuga, toccherà al vigoroso e fanatico Isao fornire il pretesto per l’ennesima epifania frustrata. Ambientato in un Giappone già corrotto dalla modernità, il romanzo si caratterizza per i toni più crudi, nonché per il violento incedere d’impulsi reazionari. Honda, già maturo, assume qui toni paternalisti davanti al vitalismo idealista, quanto autodistruttivo, di Isao; ciò non impedirà che il secondo protagonista con i tre nei sul fianco, reso cieco ed allucinato da furore eroico nell’indifferenza generale, ponga fine ai suoi giorni con un suicidio rituale. Nel terzo episodio intitolato Il tempio dell’alba, il vero protagonista è proprio il ricco ed ormai affermato Honda, null’altro che un puerile professionista legale dedito a perversioni voyeuristiche, il quale stavolta riserva le proprie attenzioni alla giovane principessa Ying Chan, probabile reincarnazione di Isao. Le imbarazzanti abitudini onaniste di Honda, aggravate da goffaggine e fraintendimenti, porteranno anche questa vicenda alla vacuità, con l’aggravante di una casuale banalità di fondo sempre più asfissiante: qui i tre nei non saranno realmente visti sul costato della principessa e la morte di quest’ultima perderà ogni valore simbolico, gettando sulla vicenda un’inquietante velo di decadenza borghese.
Il tempio è vuoto, la sacralità è svilita, ma per Mishima non basta, tant’è che l’epilogo denominato La decomposizione dell’angelo, specchio impietoso e masochista degli inganni, riserva al lettore tutto l’amaro sapore della disfatta più subdola. Honda è un anziano pensionato, ormai vedovo decide di adottare Toru, il figlio che non ha mai avuto. Con quest’ultimo personaggio, sadico e viziato, si compie l’insudiciamento irreparabile dell’immacolata veste angelica, trasposizione delle decadenti sorti nipponiche. La reincarnazione auspicata di Kiyoaki, già compromessa dai travisamenti offerti da Isao e Ying Chan, giunge qui al parossismo: non sarà certamente l’indegno ed iconoclasta Toru a colmare quel latente ed arbitrario desiderio di purezza e redenzione, sottotraccia evocato fin dall’inizio del romanzo. Anzi, la tetralogia si chiude con una mise en abyme claustrofobica, come se lo specchio riproducesse all’infinito e retrospettivamente il vuoto, l’ombra soggiogata da un’attività inconcludente: “the dreamer is still a sleep”. Recatosi al cospetto della badessa, in un monastero di clausura, Honda cerca disperatamente di recuperare i tasselli della sua vita, di riordinarli mnemonicamente attraverso il conforto di una testimone chiave, l’enigmatica Satoko lì auto esiliatasi da anni; non fu lei il primo ed unico amore di Kiyoaki? Chi altri potrebbe offrire l’ultima speranza, per conferire spiritualità al sordido incedere delle smentite? Stanco ed affannato, il vecchio Honda elemosina qualche parola di conferma da quell’altera figura, ma la monaca non ricorda affatto. Non è mai esistito alcun Kiyoaki. Un’intera concatenazione sarà così liquidata nel modo più crudele. La sentenza che chiude contemporaneamente i quattro romanzi e la vita stessa di Yukio Mishima, è come un impalpabile respiro, l’alito acre del morituro: “Il giardino era vuoto. Era venuto, rifletteva Honda, nel luogo del nulla, ove ogni ricordo è cancellato”.
@barbadilloit