Con l’angoscia di non essere più sano, girando col termometro in tasca invece del telefonino, suonando il clarinetto sotto le coperte nelle stanze d’albergo per non disturbare, odiando il Natale e i messaggi di bontà («vorrei avere un qualche messaggio positivo da trasmettervi. Non ce l’ho. Vi accontentate di due messaggi negativi?»), e sfornando un film a stagione, Woody
![Woody Allen](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2015/12/woody_allen_ilustracja-310x194.jpg)
Allen (Allan Konigsberg) compie 80 anni. Sembra ieri che se ne stava disteso su un divano, con il filo del telefono attorcigliato al collo a cercare di capire per cosa valesse la pena di vivere, dopo averci detto tutto quello che dovevamo sapere sul sesso: «O si feconda o si muore». Certo, certo, tergiversando, però, perché se l’amore è la risposta è il sesso che suggerisce ottime domande, perché si vive una volta sola, e qualcuno nemmeno quella, e allora tanto vale farlo bene, provando a scrivere e riscrivere scrivere un romanzo che è sempre fermo a metà, e dicendolo mentre si sorseggia un Martini e viene voglia di andare a guardare fuori dalla finestra se c’è ancora speranza. A sentire lui, con molto pessimismo, sì, c’è ancora speranza, sempre picchiettando su una vecchia Olympia portatile, compilando fogli gialli, pezzi su pezzi di impressioni e idee, sguardi fuori da quella finestra, articoli per il “New Yorker” e “New York Times” e in uno di questi raccontava che «durante il tragitto a piedi verso uno Starbucks non ho resistito alla tentazione di deviare per chiedere un elettrocardiogramma veloce», che sia vero o no non importa, che la vita o l’amore siano copiati o no da Joyce – come in “Crimini e Misfatti” – quello che conta è uscirne leggeri, o anche solo uscirne, chiedendosi: «Come ho fatto a fregarli ancora?» Capitalizzando la nostalgia, forse, e dividendo lo schermo a metà, immaginando di passeggiare per Central Park con una donna da amare ma anche no, stare sui gradini del Metropolitan Museum a guardare la gente, provando a non far soffrire aragoste, tra una seduta di psicanalisi e l’altra rompendo con Freud in disaccordo sul fatto che il suo mito era tenuto in piedi dall’industria dei divani, e facendosi investire da una auto spinta da due tizi, mentre sognava di essere i collant di Ursula Andress. È riuscito a portarsi Manhattan dietro anche in Europa, perché è quella la sua coperta di Linus, un piumone che copre tutto, ingombra quando traslochi, ma a stenderlo ci fai sempre una gran figura. Tanto poi c’è l’insonnia che consente di riflettere su quello che era giusto e no, insegnandoci a prendere per il culo tutto il mondo, a cominciare dal suo, quello ebraico, di mamme da picchiare tornando a casa, passando per la storia russa e girando in tondo intorno alla statua della libertà: «l’ultima donna cui sono stato dentro». Come dice Diane Keaton – che lo ama ancora – è il maestro del ridimensionamento, «Io non mi intendo di suicidi. Quando sono cresciuto, a Brooklyn, mai nessuno che si suicidasse: erano tutti troppo infelici», una vita passata a sottrarsi, a scansare, «Il concetto stesso di premi e tributi di stima è un’idiozia», c’è riuscito anche con gli Oscar, quelli ai suoi film e ai suoi attori (ne ha portati un mucchio alla cerimonia, senza mai andarci, ce li ha mandati, sordianamente). Che la vita sia il sogno di un cane, quello di un attore che esce dallo schermo a soccorrerti o un radiodramma che ti consegna la tua possibilità di svolta, non ha importanza, quello che conta veramente, più del ti amo, è che ti dicano: «è benigno».