Oggi ricorrono ottant’anni dalla morte di Fernando Pessoa, l’enigmatico scrittore, poeta e aforista portoghese (ma anche giornalista, pubblicitario, traduttore, impiegato contabile…) che molti ritengono il maggior autore lusitano del XX secolo. Se ne andò a 47 anni, divorato dalla cirrosi epatica dovuta all’abuso di alcol, benché la sua esistenza fosse piuttosto monotona e priva di particolari vizi (bottiglia a parte).
Un personaggio complesso, dalle molteplici sfaccettature: monarchico, conservatore, depresso, occultista e creatore di decine di eteronimi: attenzione, non solo banali pseudonimi con i quali firmava poesie, articoli di giornale, racconti; ma veri e propri “altri da sé” ai quali attribuiva vite parallele a quella che lui stesso conduceva.
Un aspetto di Pessoa che quasi nessuno conosce era la sua passione per la letteratura gialla. «Uno dei pochi divertimenti intellettuali che ancora restano in quel che resta di intellettuale nell’umanità è la lettura di romanzi polizieschi», scrisse l’autore de «Il libro dell’inquietudine». Che non si limitò a leggere i giallisti dell’epoca, in particolare britannici, ma volle anche scrivere, più che altro come divertissément, alcuni brevi romanzi e racconti polizieschi ambientati nella sua Lisbona.
Questi testi, rimasti perlopiù inediti sino a pochi anni fa, ebbero scarsa attenzione da parte della critica e caddero nel dimenticatoio per molti decenni. In Italia sono stati tradotti e proposti nel 2009 dalle Edizioni Cavallo di Ferro, che li ha pubblicati in un unico volume che raccoglie undici casi sui quali indaga Abilio Quaresma, protagonista dei racconti e in qualche modo alter-ego di Pessoa. Il titolo del libro, ormai pressoché introvabile, è appunto «I casi del dottor Abilio Quaresma» (19,50 euro). Seguendo una certa consuetudine anglosassone, Quaresma non è un poliziotto professionista, bensì un medico, un detective casuale che riesce a risolvere misteri intricati quasi solo con lo strumento della logica. Più Poirot e Sherlock Holmes, insomma, che Maigret o Marlowe.
Chi cercasse traccia della Lisbona degli Anni Trenta nei lunghi racconti (o brevi romanzi) di Quaresma, resterebbe però deluso. I testi polizieschi di Pessoa sono quasi sempre ambientati al chiuso e l’indagine è puramente razionale, cerebrale, quasi una soluzione enigmistica. Nulla a che vedere con le pittoresche descrizioni delle strade e dei bistrot parigini di Simenon o le scazzottate e sparatorie di Chandler e Hammett, tanto per rimanere negli stessi anni. Il modello di Pessoa sembra essere il «giallo della porta chiusa», reso celebre da Edgar Allan Poe con il suo investigatore Auguste Dupin e poi perfezionato da Agatha Christie in «Dieci piccoli indiani».
In realtà rispetto agli autori citati, che di certo rientravano fra le letture preferite del poeta portoghese, il Pessoa giallista non è poi gran cosa. Gli manca in senso del ritmo che contraddistingue ogni bravo scrittore di polizieschi, ha una prosa piuttosto involuta, non conferisce grande spessore ai suoi personaggi. Insomma, leggere «Il caso Vargas» o «La pergamena rubata» per poi confrontarli con i contemporanei «Il pazzo di Bergerac» e «La chiusa numero 1» di Simenon, oppure con «Il grande sonno» di Chandler o «Il falcone maltese» di Hammett, è operazione impietosa.
Resta la curiosità di sapere che quando Pessoa trascorreva ore seduto al tavolino del famoso caffè A Brasileira o consumava i suoi pasti al ristorante Martinho da Arcada, in praça do Comercio, non sempre pensava alla poesia o al destino dei suoi eteronimi più famosi, Ricardo Reis e Alvaro de Campos. Magari cercava un inghippo narrativo per risolvere un’indagine poliziesca del dottor Quaresima. (dal gruppo Fb Trama Nera)