Se il buongiorno si vede dal mattino, secondo un vecchio adagio popolare, allora nel corso del quadriennio di governo del neoeletto presidente argentino Mauricio Macri ci sarà da divertirsi. Il candidato vincente della coalizione Cambiemos non si è ancora insediato alla Casa Rosada (lo farà tra una decina di giorni), che già a Buenos Aires infuriano le polemiche.
A provocare sdegno da un lato e imbarazzo dall’altro, sono un paio di uscite pubbliche di esponenti molto vicini a Macri in relazione al nervo ancora scoperto della triste tradizione dittatoriale dell’Argentina novecentesca e del rispetto dei diritti umani. Ad aprire le danze subito dopo la vittoria al ballottaggio è stato un editoriale anonimo uscito sul quotidiano La Naciòn, uno dei principali del Paese apertamente schierato con Macri. Sotto il titolo «Niente più vendetta», con un tempismo davvero sorprendente, l’articolo suggeriva a Macri di mettere fine «all’ansia di vendetta» del governo Kirchner sui tragici fatti degli Anni Settanta e in sostanza di metter mano alle leggi che stanno permettendo di processare, anche a tanti anni di distanza, i presunti responsabili di torture, sequestri e uccisioni indiscriminate ai tempi della giunta militare.
Al di là del merito e del fatto che in effetti nei dodici anni dei Kirchner la «guerra sporca» è stata affrontata abbastanza a senso unico, stupiscono tempi e modi della proposta del giornale, considerato portavoce degli interessi della grande borghesia e dei vertici delle forze armate. Quelle che il generale Peròn chiamava i «gorilas», insomma. Infatti l’editoriale ha scatenato un vero putiferio, persino all’interno dello stesso quotidiano, e decine e decine di giornalisti hanno preso le distanze dalla direzione e dalla proprietà, manifestando pubblicamente la loro repulsione per qualsiasi ipotesi di colpo di spugna.
Il secondo caso sta esplodendo in queste ultime ore, dopo che Macri ha divulgato la lista dei ministri che faranno parte del suo governo. A far discutere è la nomina a ministro della Cultura di Pablo Avelluto, giornalista e manager dell’editoria, autore di libri e dirigente di editori importanti come Planeta e Random House Mondadori. Il neo-ministro è già finito nell’occhio del ciclone per un tweet di un paio d’anni fa, nel quale prendeva le difese della Revoluciòn Libertadora, vale a dire il golpe militare che nel 1955 rovesciò il governo legittimo di Peròn, lo incarcerò e poi lo costrinse all’esilio. Una bazzecola, fra l’altro, nel corso della quale i militari bombardarono la Casa Rosada e il centro di Buenos Aires, provocando oltre 360 morti. Di lì in poi cominciò la sanguinosa repressione del peronismo che preparò il terreno, alla fine degli Anni Sessanta, a una specie di larvata guerra civile che si concluderà solo nel 1983, con il ritorno della democrazia. Su Twitter Avelluto definiva quello del 1955 «il mio golpe preferito, che purtroppo gode di cattiva stampa. Mi sarebbe piaciuto essere lì, a fianco dei liberatori».
Parole che sono sembrate non solo di cattivo gusto, ma anche irresponsabili. E che stanno facendo ricredere quella parte di peronisti, in rotta con il kirchnerismo, che alle elezioni non hanno appoggiato il candidato sconfitto Daniel Scioli. In attesa delle prime mosse del governo Macri, sta animando il dibattito politico anche la scelta dei ministri, molti dei quali sono «falchi» antiperonisti in maniera anche virulenta, oltreché legati agli interessi del mondo finanziario e di alcune multinazionali, come JP Morgan, Shell, Banco de Galicia, e ad ambienti diplomatici stranieri. Il neo presidente della Banca Centrale Federico Sturzenegger è stato anche rinviato a giudizio, anche se poi prosciolto, per gravi reati finanziari che avrebbero aumentato il debito pubblico argentino fino a causare l’implosione del 2001. L’Argentina del futuro, insomma, sembra guardare pericolosamente al passato.