Se Hugo Chàvez è davvero intervenuto da lassù, come suggerivano alcuni manifesti elettorali affissi nelle vie di Caracas, allora il neo-presidente venezuelano Nicolàs Maduro dovrà accendere un cero alla memoria del suo vecchio amico e leader politico. Perché in caso contrario l’alfiere del «chavismo senza Chàvez» sarebbe andato incontro a una sconfitta clamorosa. Già così l’affermazione alle presidenziali è una vittoria dimezzata: troppo risicato il vantaggio sullo sfidante Henrique Capriles per non dar adito ai soliti sospetti di brogli; e troppo elevato il divario dal risultato ottenuto dal defunto comandante, appena sei mesi prima, per non generare crepe, invidie e rimpianti all’interno dello stesso Partito socialista unito (Psuv).
Chiamato alla prima prova importante della sua carriera politica e malgrado si sia fatto sentire l’indubbio «effetto Chàvez», a solo un mese dalla sua scomparsa, il delfino Maduro ha cominciato con il piede sbagliato. Secondo gli analisti internazionali la vittoria del fronte chavista non era in forse, il problema era il quantum. E non c’è dubbio che il successo risicato (50,7% dei consensi contro il 49,1%, con una differenza di neppure 250 mila voti fra i due candidati e un calo di oltre 800 mila preferenze rispetto al risultato di Chàvez nell’ottobre 2012) regali a Maduro lo scomodo status di presidente azzoppato.
A molti, anche all’interno del fronte chavista, l’ex sindacalista cinquantenne era apparso un candidato troppo debole e burocratico, come del resto sarebbe stato chiunque si fosse trovato a raccogliere il testimone di un personaggio carismatico come Chàvez, di sicuro uno dei pochi leader sudamericani dell’ultimo secolo in grado di lasciare un ricordo e una testimonianza forte del proprio disegno politico. Parte della coalizione chavista avrebbe preferito candidare il presidente del Parlamento Diosdado Cabello, ex militare ed ex governatore dello Stato di Miranda (il Venezuela ha un ordinamento federale), altro uomo forte del Psuv. Ma l’incoronazione dello stesso Chàvez, che prima di morire ha indicato in Nicolàs Maduro il proprio successore, ha tagliato la testa al toro: impossibile, a solo un mese dalla scomparsa del comandante, andar contro le sue ultime volontà.
In queste ore in Venezuela regna una forte tensione: l’opposizione non ha riconosciuto la vittoria di Maduro e reclama il riconteggio dei voti, spalleggiata in questo dalla diplomazia statunitense, che non vede l’ora di sbarazzarsi dello scomodo (per lei) fantasma di Chàvez, forse l’unico presidente sudamericano che negli ultimi vent’anni ha saputo mettere in difficoltà la solita politica di Washington: l’America Latina da gestire come il «cortile di casa».
Non deve stupire. La vasta e composita coalizione che sostiene Capriles (che di secondo cognome fa Radonski) parlava di brogli e di elezioni irregolari anche quando perdeva con dieci punti percentuali di distacco, figuriamoci ora. Non bisogna dimenticare che il partito Primero Justicia (Prima la Giustizia), formazione di centro-destra su posizioni ultraliberiste, è figlio dell’opposizione antichavista sorretta dalla strana alleanza fra Confindustria locale, episcopato venezuelano e magnati televisivi privati che nel 2002 promosse e finanziò un golpe armato contro Chàvez. Soltanto una straordinaria mobilitazione popolare impedì ai golpisti – già riconosciuti come governo legittimo dagli Usa – di rimanere al potere per più di tre giorni e ottenne l’immediata liberazione di Chàvez, che era stato imprigionato da una frangia di militari vicina all’opposizione.
Il brodo di coltura democratico dell’opposizione antichavista è di questo tipo e non deve meravigliare che adesso, percependo l’effettiva debolezza del neo-presidente, soffi sul fuoco a costo di scatenare tafferugli e incidenti. Anzi, non è da escludersi che Capriles miri proprio a questo: a fomentare un clima da guerra civile in grado di propiziare un nuovo colpo di mano, con la benedizione degli Stati Uniti.
Per il «chavismo senza Chàvez» è la prima prova del fuoco. Si vedrà a breve se la coalizione raccolta intorno all’eredità politica del comandante resisterà all’offensiva dei partiti filo-americani oppure andrà in pezzi, disgregandosi in assenza di una guida sicura. E si vedrà anche se Chàvez ha visto bene a indicare in Maduro il suo successore oppure ha puntato sul cavallo sbagliato. Sarà importante anche il ruolo delle forze armate, i cui vertici appena un mese fa si sono radunati al palazzo di Miraflores per i funerali del presidente, giurando in mondovisione fedeltà e sostegno alla rivoluzione bolivariana. Il futuro del Venezuela dipenderà anche dalla loro lealtà.
In ballo, oltre all’enorme ricchezza dei giacimenti petroliferi e al ruolo strategico giocato dal Venezuela di Chàvez negli ultimi quindici anni come capofila dei Paesi non allineati alla politica di Washington, c’è anche il destino di milioni di venezuelani poveri e poverissimi, che nel corso del tempo hanno acquisito un nuovo ruolo sociale ed economico e non vogliono tornare a vegetare nei bassifondi del «cortile di casa» degli Stati Uniti.