In Italia la musica new wave o post-punk non incontrò mai i favori del pubblico di massa, come ad esempio accadde in tutto il nord Europa a partire da fine anni ‘70. Prudentemente accoccolati sotto la gonna della canzone d’autore, gli italiani finsero che nulla fosse cambiato dal decennio precedente. Qualche tocco di restyling caricaturale, pensiamo a Donatella Rettore, Matia Bazar, Enrico Ruggeri, Ivan Cattaneo, Alberto Camerini, acconciati a nuovo abito per il pubblico di morti viventi di Sanremo, e la questione poteva dirsi risolta. Molto più fervido e creativo si dimostrò il sottobosco indipendente – concentrato in città quali Milano, Torino, Bologna, Pordenone e Firenze – da qualche anno oggetto di scoperta grazie a ristampe molto curate, spesso contenenti materiale inedito; all’epoca, infatti, molte band nemmeno giungevano alla pubblicazione di un disco ufficiale, finendo così per interessare solo una nicchia di fedeli estimatori aggiornati in tempo reale da riviste come Rockerilla. Alcuni nomi, tra i più influenti: Garbo, Gaznevada, Underground Life, Krisma, Denovo, Frigidaire Tango, Kirlian Camera, Moda, Neon, Jeunesse d’Ivoire, Pankow. Se però, volendo riassumere il fermento new wave tricolore, dovessimo scegliere una città, un nome ed un disco, la risposta sarebbe questa: Firenze, Diaframma, Siberia.
Anticipato da alcuni singoli e da materiale grezzo, poi raccolto nella seminale raccolta 81-83, Siberia uscì nel Dicembre del 1984 per i tipi della I.R.A. records. Il disco rappresenta tutt’oggi un oggetto sonoro non ben identificabile dai più, certamente alieno rispetto a quell’idea un po’ superficiale e “balneare” che permeò gli spensierati anni ‘80. Benché inserito al settimo posto nella classifica dei migliori 100 dischi italiani, redatta da Rolling Stone, conserva intatto molto mistero, l’amaro sapore esistenzialista dei tormenti giovanili, quell’essenza oscura ma non manierista, agli albori chiaramente debitrice nei confronti delle coeve sonorità albioniche, Joy Division su tutti. Un classico, forse, ma troppo raffinato per incontrare i favori del pubblico generalista, così desideroso di svago “tropical” dopo tutto il piombo degli anni precedenti. Siberia, già dal titolo, evoca glaciali atmosfere claustrofobiche, ripetitivi “falsi movimenti” e introspettivo disagio generazionale, seppure filtrato da un punto di vista nichilista ed individualista. Niente prediche sul mondo migliore, niente messaggi di fratellanza, niente “peace & love”, ma il coraggio di cantare in italiano, negli otto pezzi del disco, rilasciando testi di cruda poesia, squarci lirici sospesi tra simbolismo alla Dino Campana e morbosità psicologiche d’impronta mitteleuropea. Tutta farina del sacco di Federico Fiumani, il chitarrista/compositore che del gruppo era – e continua ad essere anche oggi – l’attore principale (anche quando finge di farsi comparsa).
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Il disco, impreziosito da una copertina che pare citare I cacciatori nella neve di Pieter Bruegel – ma in realtà pare sia tratta da un vecchio volume del Touring Club – porta con sé una fredda eleganza, tutta la bellezza cerebrale derivata dalla prominenza di elementi apollinei a discapito di quelli dionisiaci, come se l’eutanasia del rock tradizionale trovasse qui la sua urna autarchica più sincera; I quattro giovani musicisti, fasciati in grigi soprabiti, posano distaccati davanti all’obiettivo per le foto promozionali: è l’estetica un po’ nazi del periodo, il rigore formale del nuovo corso. L’immaginario noir di riferimento, geometrico, controllato e severo, dischiude talvolta spiragli preziosi nel pesante paesaggio ghiacciato; come fiori nella neve qui tutti i colori sembrano illusori e le parole affilate striano di rosso un tragitto verso l’ignoto. Elena e Ultimo boulevard, due episodi frutto della collaborazione con i Litfiba, non inclusi in scaletta ma aggiunti nelle ristampe seguenti, contribuiscono in questo senso ad aggiungere luce, benché sempre velata come il pallido sole che s’intuisce oltre la nebbia. Poi Specchi d’acqua, Neogrigio, Amsterdam, Delorenzo, sono passi pesanti calati nel fango invernale, sordide elegie di gusto decadente. La voce possente e teatrale di Miro Sassolini, enfatizza con maestria questo doppio registro: da un lato l’esistenzialismo ed il cupo schematismo reiterato dalle metriche post-punk, dall’altro le velleità tutte italiane di ricambio generazionale, l’illusione di poter diventare riferimento estetico e culturale nell’obsoleto panorama discografico italiano.
Saranno proprio gli ex sodali Litfiba, molto più ambiziosi e predisposti a sacrificare sull’altare della popolarità l’effimera e sperimentale stagione new wave, a vincere la sfida tutta fiorentina. La band di Piero Pelù, meritevole dei peggiori insulti, non produsse più alcunché d’interessante con l’emancipazione dall’underground, anzi, man mano che il successo crebbe i risultati artistici scemarono, spirando definitivamente in uno stereotipato canovaccio hard rock. Esattamente il giurassico riferimento che, con i Diaframma, ebbero l’ardire di sfidare in gioventù. Federico Fiumani, dal canto suo, proseguì con coerenza in un’altalenante carriera, raramente premiato per tale costanza. Certo, 3 Volte lacrime, Boxe, Anni Luce, In Perfetta solitudine, Il ritorno dei desideri meritano di essere annoverati tra i capolavori della musica italiana – non poco per un outsider – dischi febbrili, coraggiosi, ancora intrisi di spleen punkeggiante e di cocciuta poetica meravigliosamente italiana. Ci restano alla fine, come metro di giudizio, le fredde canzoni di Siberia, quadri scapigliati sfocati nella nebbia di una Firenze elegante e misteriosa. Era inverno, c’era buio ed eravamo ancora giovani.
@barbadilloit