È notizia degli ultimi giorni della riscoperta di una mappa de Il Signore degli Anelli (LOR) annotata dallo stesso J. R. R. Tolkien e che è stata alla base della celebre A Map of Middle-Earth (1970): il poster commissionato a Pauline Baynes dall’editore Allen & Unwin. Il ritrovamento offre nuove preziose considerazioni geografiche sulla sovrapposizione tra la Terra di Mezzo e l’Europa, e una di queste riguarderebbe addirittura l’Italia! Quella riapparsa è una copia del 1954 della mappa disegnata dal figlio dello scrittore (Christopher), con note in inchiostro verde vergate dal padre, così da fornire utili indicazioni toponomastiche e geografiche alla Baynes. Costei aveva collaborato con Tolkien in qualità di illustratrice per altre opere: Il cacciatore di draghi, Le avventure di Tom Bombadil e Il fabbro di Wootton Major. La mappa è stata scovata in una delle più importanti librerie antiquarie inglesi, la sede oxoniense di Blackwell’s, che l’espone in questi giorni dopo aver fissato un prezzo base di 60 mila sterline.
“Minas Tirith alla stessa latitudine di Firenze”: da qui l’indicazione Ravenna
Ricordiamo una frase di Tolkien che fece sognare i suoi ammiratori fiorentini: “Se Hobbiton e Rivendell sono all’incirca alla latitudine di Oxford, Minas Tirith a 600 miglia a sud sarà pressapoco alla stessa latitudine di Firenze”. Ciononostante, secondo le rivelazioni dalla suddetta libreria, il Maestro avrebbe esteso quel “pressapoco” fino a far coincidere Gondor, con l’ultima capitale dell’Impero Romano d’Occidente, ovvero Ravenna! La opinione in casa Blackwell è che la mappa confermi proprio la città romagnola quale modello per Minas Tirith. Il dibattito tra gli esperti è dunque aperto. Vero è, che se si legge in modo profondamente allegorico la trilogia tolkieniana, allora il senso del possibile dramma per la caduta di Gondor potrebbe, in una mente amante della storia come quella del professore inglese, richiamare anche quella tragica di Roma, con la fine di tutto un sistema di valori.
L’intervista alla BBC del 1964
Un documento persino più utile per i critici e gli appassionati di Tolkien è la recente divulgazione in Rete di una sua intervista rilasciata alla BBC nel 1964. Riporteremo e commenteremo qui di seguito alcune delle sue affermazioni più interessanti. Una cosa è certa, il grande filologo, a cui venne affidata per venti anni (1925 – 45) la cattedra Rawlinson and Bosworth di studi anglosassoni del Pembroke College di Oxford, non aveva la migliore delle pronunce. Forse ciò è dovuto al non bellissimo inglese che si parla nella sua Birmingham o, ancor più probabilmente, per il suo continuo e simpatico bofonchiare. Ecco per questo e, come vedremo, altri motivi, la video-intervista si attesta come una testimonianza decisamente intrigante sul creatore della saga delle saghe fantasy.
Tolkien è stato spesso accusato di escapismo. Alla domanda del giornalista Denys Gueroult se il mondo in cui viviamo è in una altra era rispetto al LOR, egli prontamente risponde che è invece lo stesso mondo, ma: “In un altro stadio della immaginazione”. Difatti, il Professore era solito includere nei suoi lavori dei collegamenti indiretti – quasi delle “citazioni” – con le vicende del nostro mondo: “Per costruire un storia bisogna farlo basandosi su ciò che si conosce”. Non per nulla, i più autorevoli esponenti della critica tolkieniana sostengono ormai da tempo come il suo più che essere un mondo “alternativo”, sia invece vero.
Durante l’intervista, l’autore si sofferma su quanto egli ami dare i nomi ai suoi personaggi, forse persino l’“esercizio letterario” che lo diverte maggiormente. A tal proposito, egli confessa che sono stati i nomi dei nani quelli che lui ha elaborato con miglior cura – essendo, questo, un popolo molto riservato e schivo – basandosi su quelli dei personaggi delle leggende nordiche, segnatamente scandinave.
Gli alberi in Tolkien rivestono un ruolo importante, si sa. Appassionati e studiosi gli hanno sovente attribuito varie letture simboliche, ma il Professore sembra smontare queste teorie, con la seguente affermazione: “Io non lavoro con i simboli”. Noi però siamo convinti, come lo è anche Gianfranco de Turris, che per comprendere bene l’opus tolkieniano sia comunque: “[…] necessaria una analisi simbolica, e non allegorica o metaforica” ( J R. R. Tolkien, capostipite del fantasy, in AA. VV., I bastioni di Gondolin, Bari, L’Arco e la Corte, 2015, p. 24).
Del resto, lo scrittore stesso negava che alle sue storie si potesse applicare una interpretazione metaforica, essendo quelle che raccontava storie “vere”, e per esse è perciò possibile proporre anche una lettura simbolica. I narratori poi non sono sempre consci di creare dei simbolismi. Basti pensare ai romanzi di Joseph Conrad, giudicati da numerosi critici insipienti come delle semplici avventure di mare, quando, per converso, essi sono intrisi di elementi simbolici; che tuttavia l’autore non creava di proposito. Egli sì pensava di scrivere essenzialmente delle storie avventurose, ma il suo smisurato talento ha permesso ai suoi romanzi di andare ben oltre il confine del genere. Ciò, in buona sostanza, vale anche per Tolkien.
“La Contea mi fa sentire a casa. È molto simile al mondo che ho conosciuto quando ho cominciato a rendermi conto delle cose”, così Tolkien palesa il suo amore per la campagna delle Midlands, ovvero una Inghilterra che già alla epoca andava sparendo. Per l’antimoderno padre del fantasy, le memorie dell’infanzia sono “poignant” (“toccanti”). Chiediamoci allora perché è proprio questo momento della esistenza tanto importante per Tolkien. Probabilmente ciò è dovuto al concetto stesso di “memoria/ricordo”. Sarebbe a dire, di un passato che permette di rivivere esperienze pure, aliene a un progresso che egli mai ha fatto mistero di non gradire.
Nella intervista Tolkien parla abbastanza liberamente del LOR, svelandone molti retroscena, tra tutti il motivo della scelta del piccolo hobbit quale protagonista della saga: “Non ho scelto Frodo, ho semplicemente continuato la storia dal momento in cui lascia [la Contea]”. A proposito delle razze, nell’autore è tutt’altro che presente quell’escapismo che per lungo tempo ha costituito il principale “capo d’accusa” mossogli contro dalla solita – ormai insopportabile – intellighenzia gauchiste: “Possiamo lavorare solo sull’Umanità”, afferma Tolkien per quanto concerne la fonte di ispirazione per la creazione dei vari Popoli della Terra di Mezzo. Dunque, è in sostanza il nostro mondo quello raccontato nel LOR, con gli elfi che rappresentano le aspirazioni che l’essere umano mai riesce a raggiungere – una longevità quasi eterna e la saggezza – mentre i nani potrebbero ricordare il Popolo Ebraico, con la capacità di lavorare dei manufatti, e gli Hobbit altro non sono che gli inglesi solo: “Resi più piccoli, poiché ciò riflette la ridotta ampiezza della loro immaginazione, ma non del loro coraggio”. Purtroppo, taluni leggono e interpretano le sue opere, non possedendo adeguati strumenti per comprenderle; oppure potremo persino spingerci oltre, parlando di “cattivi maestri”, definiti in modo semplice e assolutamente perfetto da Luigi De Pascalis nella sua prefazione a Futuro anteriore, raccolta giovanile di racconti fantascientifici sempre di Gianfranco de Turris (Psiche e Aurora editore, 2013), come gente: “[…] con il petto affollato di medaglie e con la testa vuota di idee”.
Tornando a Tolkien, alla domanda se avesse sviluppato un sistema per dare i nomi alle razze, egli risponde: “Ho semplicemente utilizzato ciò che conoscevo”, aggiungendo poi questa acutissima riflessione, dove si manifesta il suo essere religioso, un cattolico devoto: “Ogni essere umano ha il proprio carattere linguistico, come ha una faccia”. Ragion per cui, la lingua, il volto, la razza sono tutti doni che Dio distribuisce come meglio crede. Difatti, è abbastanza risaputo che la sua scrittura cominciasse sempre per l’appunto col nominare i vari personaggi: “Datemi un nome e io scriverò una storia”; quasi prendendo ispirazione dalla Creazione nella Genesi… sia un nome! Strano a dirsi, per un inglese un po’ borghese come lui, che fosse poi il gallese la lingua che foneticamente lo attraeva maggiormente. Un fatto davvero curioso, considerando che per la vecchia tradizione oxoniense non esiste alcun inglese che non sia Received Pronunciation: quello della Famiglia Reale, giusto per intenderci. Inoltre, un aspetto fondamentale da sottolineare è la conferma che egli dà nell’aver sviluppato le varie lingue del LOR ancor prima di cominciare a scrivere la Trilogia.
Sulla assenza di donne nella saga, Tolkien replica candidamente al suo interlocutore che il LOR tratta essenzialmente di guerre, dove il romanticismo e il sesso non potevano trovare molto spazio. Scopriamo pure un Tolkien divertente: alla osservazione se abbia un debole particolare per le “lucertole intelligenti”, egli risponde di esser sempre stato attratto dai draghi come “elemento archeologico”, poiché essi incarnano le migliori e peggiori qualità umane; accompagnando il commento con una bella risata.
Tolkien ha vissuto la sua saga come dotata di vita propria, benché lo scrittore riveli di non esser stato “sopraffatto” dai suoi romanzi, bensì dalla mitologia in essi contenuta, un qualcosa che lo aveva avvinto sin da giovane, poiché essa è autonomamente creatrice di mondi: “Il LOR crebbe sempre senza controllo”.
“Navigando verso un mondo del mai”, in tal guisa uno dei più grandi autori del Novecento, con buona pace di chi lo considera solo uno dei tanti inventori di storie di maghi e folletti, sintetizza il proprio lavoro. Una fuga la sua? Al contrario, una ricerca di un mondo che oggi non esiste più, ma che in passato fu, sostenendo la validità del Medioevo feudale, non inteso come oscurantista, ma gerarchico, con un potere che si eredita, evitando così una continua lotta per la supremazia. Tolkien conclude l’intervista, ricordando di essere cattolico, benché poco interessato negli angeli o cose similari. Era però sicuramente interessato a quella sacralità che deve pervadere un mondo dove l’essere, elfo, hobbit o umano, sia al centro di tutto. Una epoca parallela quella del LOR; un approdo per quelle individualità che non vivono la tecnica quale dogma, e che nelle torri leggono bene il simbolo, stavolta sì, di un Potere oscuro, autoreferenziale.