C’è sempre questo fantasma chiamato in causa quando si tratta della band inglese New Order, questo lascito ingombrante chiamato Ian Curtis, cantante suicida dei Joy Division, ovvero il frontman della band post-punk dalle cui ceneri presero le mosse i tre musicisti- Sumner, Hook e Morris – che gli sopravvissero. Ma qui interessa poco ripetere la filastrocca nostalgica ad uso e consumo degli imberbi, dei brufolosi ed inconsapevoli divulgatori di “piaceri sconosciuti”, quelli con addosso l’iconica maglia di Unknown Pleasures nell’atto di fare skateboard dopo un cheeseburger da McDonalds; oppure delle cariatidi dark, quelli che a cinquant’anni passati si radunano ancora in squallidi sottoscala per ballare alla luce dello strobo Love will tears us apart, il ruffiano inno romantico che rischiò di tramutare i “padri di Manchester” in cloni dei futuri U2 o, peggio, di quelle mezze seghe dei Sisters of Mercy, imprigionandoli così nel grottesco neogotico in luogo di un severo grigiore realista certamente più consono. Potendo getteremmo sterco su quell’orecchiabile epitaffio, preferendogli di gran lunga Isolation, She’s lost control o Heart and soul, per limitarci a tre esempi. Gesto che arrecherebbe sommo sconforto nel bassista transfuga Peter Hook, da qualche anno autonominatosi custode ufficiale delle sacre reliquie dei Joy Division, con ciò dimostrando di non avere capito un cazzo – attardandosi nel lucroso passato – su presente, futuro e soprattutto eterno, meta-luogo dove i Joy Division meritatamente riposano (…in silence, sarebbe l’auspicio). Capitolo chiuso, per tutti gli altri c’è Wikipedia, sede opportuna dove racimolare aneddoti ripetuti per l’occasione ad ogni uscita discografica dei mancuniani, suggestioni buone per reduci e novizi, fatte di medaglie punk su abito finto-borghese: la Factory Records, L’Hacienda, Blue Monday e True Faith, l’abbattimento degli steccati tra rock e dance, l’ascendente genetico sulla scena alternativa di Manchester, Control e 24 hours party people.
“Abbandonare un luogo, una situazione, un ambiente, un sistema di vita o simili facendo in modo di non lasciare alcuna possibilità di ritornare sulle decisioni prese. Allude all’uso degli eserciti di bruciare o comunque distruggere i ponti dietro di sé, allo scopo non solo d’isolare le località interessate, ma soprattutto d’impedire eventuali diserzioni da parte delle proprie truppe”.
Così recita il dizionario a proposito di bruciare i ponti, sicché pare logico tornare a trattare di New Order nel 2015, anno di un insperato ritorno discografico intitolato Music Complete (Mute Records), proprio rimarcando quest’attitudine mutante, cangiante nell’unica coerenza rimasta, quella al futuribile. Già la cover studiata da Peter Saville, graphic designer fedelmente affiliato alla band già dal 1979, induce a soppesare il supporto valutando, ancora prima dell’ascolto, opzioni cromatiche Pop ma al contempo non prive di un certo rigore astrattista, alla Mondrian tanto per intenderci. Questa faccenda delle copertine disegnate da Saville è da sempre preludio enigmatico, elegante atrio anonimo, integralista nei riferimenti postmoderni e tuttavia estremamente funzionale allo scopo di fare sintesi estetica dei contenuti. E così ancora una volta si apre un mondo di luci ed ombre, si dischiude l’artificiale architettura sonora che, con qualche rimando ai tempi gloriosi di Technique (1989) e Republic (1993), converte il risaputo verso un’edificazione sintetica di puro modernariato. I New Order non sono i Kraftwerk – v’è infatti dell’umano nell’incerto cantato di Bernard Sumner così come nella strumentazione ibrida tra “rock” ed elettronica – pur avendo assorbito dai docenti di Düsseldorf l’algida vocazione costruttivista applicata alla sfuggevole materia sonica. I New Order non sono i Pet Shop Boys – la categoria del sinth-pop commerciale prevede derive nell’effimero e spesso nel trash più ruffiano – pur possedendo similmente l’innata capacità di imporre gommose melodie che s’appiccicano a presa rapida nella memoria. Infine i New Order non sono i Depeche Mode – niente tronfie pose da rockstar e scarsa vocazione alla teatralità da stadio – pur avendo conservato una ragione sociale di successo, ben identificabile dal 1980 ad oggi.
Dunque Music Complete, ambizioso titolo per un contenitore “chimico” nel quale trovano posto le essenze caratteristiche della genetica neworderiana: edonismo, nonsense, distacco, malinconia e cinismo; il tutto rivestito da un’acida patina, un aspro cromatismo a velare il metronomico andazzo degli undici pezzi proposti. Anche il pericolo di crolli stilistici pare calcolato nell’ottica di aggirare la prevedibilità: “Non mi interessa il nome vero, non mi interessa la vita reale, quella canzone. E tu sei tutti frutti”, così recita una metallica voce in italiano nell’epilogo solipsista di Tutti frutti. A ciò si contrappone il notturno soliloquio di Iggy Pop nella tetra Stray dog, controbilanciamento esistenzialista alla fruibilità illusoria di tutto il resto. Singulariy, Nothing but a fool, Unlearn this hatred, Plastic e The game centrifugano al meglio l’incessante vocazione al movimento, distillando la corsa spaziale in ermetica introspezione. Il suono magmatico, pulsante ed estremamente compatto riserva deviazioni “scazzate”, disbrighi danzerecci o di puro intrattenimento, non infrequenti nella storia della band. Rammentando brani del passato quali Fine time, World in motion e Confusion, si aprono tuttora porte che danno in privée seducenti, scintillanti, kitsch. Episodi sommamente preziosi nel fornire un contributo di ambiguità necessario alla costante emancipazione del Nuovo Ordine, quell’appagato timore di tradimento verso le nobili origini new wave, quel volteggiare impazzito della “musica delle sfere”, quel sospetto tramutato in sentenza trovano così risposta: bruciare i ponti dietro di sé prima di tramutare l’intera faccenda in rimasticazione per nostalgici.