In prossimità di un mondo pubblicamente riconosciuto e accettato, si perde un orgoglioso universo di creature misteriose. Vivono al di sopra e al di sotto di quella superficie, comunemente percepita come normale. Una sorta di altrove che incrina l’impressione delle certezze, in un rompicapo grossolanamente esistenziale. Una sensibilità speciale, calamitata da un cosmo ancor più singolare, perpetua in fotografia un mondo tinto dalle sfumature del crepuscolo.
Diane Arbus, la prima nella fotografia americana a essere ospitata alla biennale di Venezia (1972), figlia di quell’upper class newyorkese, fatta di seta e scuole prestigiose, rappresenta nell’arte dell’immagine una personalità rara. Presumibilmente per reazione a un cosmo infantile chiuso a determinate istanze esterne, la sua attenzione, prima umana, poi fotografica, si dispone a una rappresentazione inclemente, di una mancanza o di un eccesso: nell’oscurità dell’estremo umano si muove l’obiettivo. La grazia emotiva della Arbus, si celebra in uno spostarsi profondo e introspettivo nelle vite private degli altri.
Nate da una reflex medio formato, fotografie in bianco e nero, immortalano un’umanità raccontata dalla deformità fisica e psichica. Fenomeni da baraccone, giganti, travestiti, sadomasochisti, nani, prostitute e circensi, trovano nelle immagini della Arbus, una propria identità e appartenenza. L’atto fotografico sapiente e aggraziato, indaga attraversando la psiche, restituendo scatti intensi, intrisi di un respiro talvolta ingombrante.
L’oggetto dell’immagine è l’unicità dell’esistenza, la vita che si alimenta calando in profondità. Fotografie che non accettano un esercizio di codifica, ma signoreggiano davanti all’occhio di chi guarda e vede, come un meraviglioso spavento. L’impresentabile acquista solennità e si rende visibile, manifesta un orgoglio, ignorando una vergogna che il pubblico pudore pretende. In quest’altrove popolato dagli altri, la macchina fotografica rappresenta un passe-partou, accettato senza remore perché percepito non come forma invadente, quanto specchio silente e privo di giudizio.
Il patrimonio artistico lasciato dalla Arbus dopo il suicidio, avvenuto nel 1971, all’età di quarantotto anni, è un fiore del male ricco ed eccezionale. Onorata dal mondo cinematografico, attraverso la figura di Stanley Kubrick nelle gemelline inquietanti di Shining, l’immagine “Identical Twins”, rappresenta uno degli scatti più noti ed emblematici. Un differente approccio all’immagine delle due monozigote Cathleen e Colleen Wade, imprime gravità alla riproduzione. Una è sorridente e disponibile all’atto fotografico, l’altra rimanda in un soffio malinconico, la registrazione di un diverso stato d’animo: è lo svettare di una differenza nell’indistinguibile, l’affermazione di un’unicità. Un dettaglio che rende l’immagine delle due sorelle, tra le più riconosciute nel mondo dell’arte. La fotografia è altresì testimonianza delle affannose volte umane alla ricerca, oltremodo inutile dell’originalità. Appare un’indicazione su quanto vana sia, la furiosa asserzione di una proprietà innata: la straordinarietà di ogni individuo.
L’obiettivo errante della Arbus, tra bar, camerini, peep show e posti malfamati, riprende una tenacia del vivere che supera lo strazio umano. Non penetra compassione, non ci sono risposte perché non esistono domande. Il giudizio aderisce al mondo sovrastante che vive all’interno delle proprie regole. La presunta normalità, quella tra virgolette, può solo prendere consapevolezza dell’esistenza di un creato insolito e difforme. Mostrare per non ignorare una realtà che vive, soffre e ama. Donando voce a un mondo oscuro, Diane Arbus è riuscita nell’impresa di introdurre l’idea soggettiva della bruttezza: il meraviglioso spavento dell’umanità.
“I fenomeni da baraccone possiedono un’aura leggendaria. Come un personaggio di una favola che ti ferma e ti pone un indovinello. Molte persone vivono nel timore che gli possa capitare un’esperienza drammatica. I fenomeni da baraccone sono nati nel loro trauma. Hanno già superato la loro prova della vita. Sono degli aristocratici.”
Diane Arbus