Ma l’Italia è un Paese in anticipo o in ritardo? Posta così la domanda, in un periodo di doppia crisi, politica ed economica, la risposta può apparire scontata e propendere per la seconda opzione. Eppure, questo interrogativo è molto più profondo e lontano nel tempo la sua risposta non è così immediata come sembra.
Il nocciolo della questione è il rapporto che il nostro Paese e le sue élites hanno con la modernità e in particolare con sistemi più consolidati come quello inglese e francese. La rapidità con la quale una realtà troppo eterogenea come quella italiana alle origini del XIX secolo è passata all’Unità e poi alla democrazia liberale è una delle ragioni che hanno determinato le sue originalità e le sue anomalie rispetto e per questi si è soliti vendere l’Italia come in perenne ritardo o come inedita anticipazione.
La tesi del ritardo prende come dato una sorta di impreparazione delle nostre élites a gestire le sfide della modernità come la massificazione della politica, ma anche l’aumento degli scambi economici. Per questo esse, incapaci di fronteggiare queste situazioni, pervengono a soluzioni che possono variare da grandi compromessi a esiti autoritari. Viceversa, coloro che sostengono la tesi dell’anticipo, leggono le nostre peculiarità storiche come fenomeni profetici di tendenza che potrebbero manifestarsi anche altrove.
Difficile dire quali delle due tesi sia corretta. Con ogni probabilità c’è del vero in entrambe. Quello che più incuriosisce è provare a capire se la situazione italiana attuale sia catalogabile come ritardo o come anticipo di nuove tendenze. Se, infatti, proviamo a ragionare comparando il nostro Paese alle altre democrazie europee e allo stesso parlamento europeo, il dato che colpisce dopo le ultime elezioni non è tanto l’ingovernabilità, quanto il fatto che nessuno dei partiti eletti in parlamento abbia un suo reale corrispettivo europeo e men che meno è racchiudibile in una delle grandi culture politiche europee.
Il Pd non ha centrato la scommessa socialdemocratica e difficilmente potrebbe dichiararsi socialista senza perdere pezzi per strada. Il Pdl appare troppo distante dai popolari europei, per cultura, leadership e organizzazione. Nessun partito popolare europeo, per altro, avrebbe mai ricandidato Berlusconi dopo il fallimento della sua stagione. La Scelta Civica di Monti è un partito nato dall’alto che non ha mai trovato un radicamento nel Paese. I liberali europei, anche se non fortissimi, sono partiti di lunga tradizione e al massimo sono alleati dei cattolici (come in Germania), ma non fanno parte dello stesso partito. In questo, davvero, si misura il ritardo e la differenza tra le famiglie liberali europee e quella italiana che entrò in crisi con l’allargamento del suffragio e da oltre cent’anni è rimasta prigioniera di un pregiudizio antidemocratico, antipartitico e antiegualitario di crociana memoria.
Su Grillo non c’è che dire. Egli rappresenta davvero un caso unico e, pur avendo molte similitudini sia con i partiti populisti e della nuova destra sia con quelli animati dal radicalismo libertario postmaterialista, non può essere paragonato a nessuno di essi. Anche la Lega Nord, il partito più vecchio che si candidava a queste elezioni, ha una cultura politica ambivalente che la fa un po’ assomigliare ai partiti etnoregionalisti con forti connotazioni liberiste, come il Vlaams Belang nelle Fiandre, e un po’ ai partiti di estrema destra, come il Front National in Francia.
Insomma, queste elezioni hanno certificato il taglio netto dell’Italia rispetto alle culture politiche del passato e a quelle europee. Che sia per colpa di un ritardo o un’inedita anticipazione ce lo dirà il tempo.