La vicenda del rinnovo dei vertici della Cassa depositi e prestiti ha riesumato l’antico dibattito tra pubblico e privato in economia con punte di fondamentalismo a volte incomprensibili. I sostenitori agguerriti di un libero mercato in cui lo stato dovrebbe svolgere l’unico compito che gli sarebbe proprio, cioè quello di regolamentare il tutto, vedono come il fumo negli occhi la partecipazione dello stato in alcune società che hanno, come si suol dire, un valore strategico per il paese. Spicca tra questi l’autorevole professore Giavazzi che ha il pregio della chiarezza delle argomentazioni e della libertà di sostenerle dinanzi a qualunque interlocutore di governo. Non c’è dubbio che l’ingresso di un fondo pubblico in attività, come quello alberghiero o come tante altre che di strategico non hanno alcunché, porta argomenti fulminanti per etichettare questi interventi pubblici come fatti clientelari o peggio ancora.
È quello che è accaduto in questi anni alla Cassa depositi e prestiti anche se il giudizio complessivo sulla gestione Bassanini-Gorno Tempini non può che essere positiva sotto tutti i punti di vista. Altra cosa, però, sono quegli asset che noi definiamo strategici e che i grandi economisti non riescono a percepire come tali solo perché vincolati alle teorie economiche e non agli aspetti politici. E siccome per noi il termine “politica” non è una cattiva parola abbiamo l’onere di spiegarlo nel modo più semplice e più convincente possibile.
Nella stagione che viviamo la forza e l’autorevolezza di un paese non è data più dagli eserciti al confine come accadeva nel Novecento sino alla seconda guerra mondiale ma da tre cose fondamentali: la ricerca e l’innovazione, la finanza, il capitale umano. Questi tre aspetti, fondamentali per l’economia di un paese, costituiscono anche una fonte primaria del potere che negli ultimi cinquanta anni si è trasferita in parte notevole dalle istituzioni democratiche all’economia, alla finanza e al loro intreccio con la grande informazione. Se tornasse in vita Tocqueville dovrebbe rivedere il suo saggio sulla libertà e sulla divisione dei poteri tanto grande è stato il mutamento delle fonti del potere.
La politica è fatta di valori, di progettualità, di ordinamenti democratici, ma anche di potere il cui esercizio deve sempre avere, naturalmente, un limite dato dai pesi e dai contrappesi. Il primato della politica e del suo potere sta nella natura democratica dello stesso perché i loro protagonisti hanno un volto ed il loro operato è continuamente sottoposto al giudizio della opinione pubblica e al vaglio del voto popolare contrariamente al potere economico e finanziario. Se dunque il potere negli ultimi venti anni si è pericolosamente spostato dalla politica (governo e parlamento) alla economia e alla finanza è giusto che lo Stato democratico possa anche essere un azionista di società strategiche (energia, finanza, telecomunicazioni, trasporti) come accade in tanti paesi europei a cominciare dalla Francia e dalle Germania.
Non a caso in questi venti anni lo Stato italiano è uscito dal sistema bancario e in parte da tante altre società nei settori citati, mentre Francia e Germania tengono ancora saldamente in mano pubblica attraverso società partecipate o controllate dallo Stato. Continuare a fare riferimento ai sistemi anglosassoni è fuorviante perchè Gran Bretagna e l’America hanno sistemi politici ed economici diversi e alternativi a quelli franco-tedeschi e non è assolutamente detto che l’uno sia migliore dell’altro. Tutto, infatti, è relativo alla dimensione del paese, alla sua tradizione, al suo assetto politico e così via.
Detto questo va ricordato che il mercato è neutrale rispetto alla natura della proprietà se le regole date vengono rispettate e che nel settore della grande impresa il capitalismo italiano, con qualche rara eccezione, è stato fallimentare mentre l’impresa pubblica, con tutti i suoi errori, ha traghettato l’Italia nei settori a tecnologia avanzata facendola diventare uno dei paesi più industrializzati del mondo. In secondo luogo nei citati paesi liberisti (Gran Bretagna e America) lo Stato ha nazionalizzato banche, assicurazioni e industrie in settori strategici quando c’era il rischio di un loro fallimento confermando ancora una volta che la teoria è fondamentale ma gli equilibri di potere in una democrazia è cosa profondamente diversa. Non è un caso che l’Italia di oggi nel contesto internazionale sia un paese molto più debole di vent’anni fa spogliato come è stato da ogni strumento economico-finanziario pubblico quando nel mondo globalizzato i fondi sovrani dell’Oriente e i fondi di investimento privati dell’occidente rischiano di farla da padroni.