Dopo 13 anni trascorsi in carcere il Lama tibetano Tenzin Delek Rinpoche è morto in una prigione nel sudovest della Cina dove stava scontando una condanna a 20 anni.
È stata la famiglia ad annunciare la morte di Rinpoche, che aveva 65 anni ed era estremamente popolare in tutto il Tibet e in particolare nella regione di Kardze, provincia del Sichuan, dove aveva fondato tre monasteri e strutture sociali di sostegno per gli orfani e gli anziani.
Il suo legame col Dalai Lama, secondo gli attivisti pro-Tibet, lo avrebbe portato nel mirino dei servizi di sicurezza cinesi, che dal 1987, al suo rientro a Kardze, avrebbero cercato un motivo per “incastrarlo”. L’ occasione si presentò nel 2002, quando una bomba esplose in un’affollata area di Chengdu, capitale del Sichuan e metropoli in rapido sviluppo considerata la “porta” verso la Cina del sudovest. Tre persone rimasero ferite dal rudimentale ordigno e nessuno rivendicò l’attentato. Poi giorni dopo l’esplosione, la polizia arrestò un giovane tibetano di nome Lobsang Dondrup, che fu indicato come il responsabile dell’attentato. Nella sua “confessione” Dondrup avrebbe affermato che l’attentato era stato finanziato da Delek Rinpoche. La confessione ha un ruolo centrale nel sistema giudiziario cinese. Spesso è la “prova” in base alla quale gli imputati vengono condannati e spesso sono estorte con la tortura.
Fonti tibetane affermano che Dondrup avrebbe rinnegato la confessione davanti al tribunale e avrebbe affermato con forza la propria innocenza. Il giovane si rifiutò di presentare un appello e fu fucilato pochi giorni dopo. Tenzin Delek Rimpoche si dichiarò “completamente innocente” delle accuse e ricordò che i tibetani non hanno mai fatto ricorso ad atti terroristici per sostenere la loro causa. In appello, la sua condanna fu commutata in ergastolo e successivamente in 20 anni di reclusione.
“Ho sempre insegnato che non bisogna danneggiare nessuna forma di vita, neanche una formica, come potrei essere responsabile di un’azione del genere?”, avrebbe detto il monaco ad un familiare che lo ha visitato in carcere nel 2009. Familiari e amici affermano che da alcuni anni la sua salute si era deteriorata, e che soffriva di attacchi di cuore e di alta pressione. Gli sforzi dei suoi sostenitori per ottenere che fosse rilasciato in libertà provvisoria per potersi curare non hanno dato frutti. Kardze è stata al centro delle proteste anticinesi del 2008 e del 2009 con il movimento delle immolazioni con il fuoco, cioè dei suicidi di protesta contro la politica cinese nel territorio. Fino ad oggi oltre 140 tibetani hanno usato questa tragica forma di protesta contro la politica cinese del territorio. Decine di immolazioni si sono verificate nel Sichuan.
“Un innocente monaco tibetano buddista è morto per mano del governo cinese – scrive Tenzin Dolkar, direttore esecutivo di Students for Free Tibet, un’organizzazione con sede a New York – La sua morte è in tutti i sensi un omicidio politico”.
Si dice che “il minimo battito d’ali di una farfalla in Cina sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”.
Purtroppo la morte di un Lama tibetano perseguitato non sembra provocare alcun “uragano” nelle stanche coscienze occidentali, più preoccupate per i listini della Borsa di Pechino che del diritto dei popoli alla propria cultura e alla propria libertà.