L’India è attraversata da una moltitudine di fiumi, sia provenienti dai ghiacciai hymalaiani che generati dai monsoni stagionali. Una ricchezza idrica testimoniata anche dall’adorazione che gli Indiani hanno sempre mostrato per i grandi fiumi del loro paese, personificandoli e venerandoli come dèi.
Malgrado ciò, però, i governi di Nuova Dehli non sono stati in grado di mantenere la pulizia dei loro fiumi e, al crescere del PIL, è in aumento il numero di problemi legati all’inquinamento.
Rifiuti industriali, residui atmosferici che divengono piogge acide, rifiuti agricoli (fertilizzanti, pesticidi), rifiuti domestici degli scarichi fognari: a tutti questi fattori si aggiunge anche la pratica di gettare ritualmente nei fiumi resti umani, sia cadaveri interi che resti cremati. Il risultato è in uno studio del Central Pollution Control Board indiano che ha recentemente studiato 445 tra i fiumi principali del subcontinente: in 3/4 dei fiumi presi in esame è addirittura pericoloso anche solo immergersi.
Caso esemplificativo è quello del Gange: dal famoso fiume indiano dipende almeno il 40% della popolazione indiana. Eppure nessun risultato è stato conseguito per arginarne l’inquinamento e oggi il Gange riceve giornalmente dalle città lungo il suo corso 5 miliardi di litri di acqua sporca. Sui suoi 2525 km si affacciano infatti 29 città di prima classe: un numero enorme se paragonato ai 2860km del Danubio, sul quale se ne affacciano solo 3. E ai rifiuti di tutte queste città vanno poi aggiunti i resti prodotti da circa 300 distretti industriali. Ed è tra i dieci fiumi più inquinati al mondo anche lo Yamuna, affluente del Gange che attraversa la capitale Nuova Dehli: il 70% dell’acqua potabile della città è presa da questo fiume, nel quale però si gettano 2 miliardi di litri di acque sporche al giorno. E come per il Gange, ogni tentativo di pulirlo è finora risultato vano.
Il caso indiano è l’enorme campanello d’allarme dei rischi corsi dai cosiddetti “paesi in via di sviluppo”.
Il colosso asiatico potrebbe essere l’unico vero argine allo strapotere di Pechino sull’Asia e sul mondo, essendone il primo partner commerciale e dunque avendo i numeri di mercato per potere almeno minacciare l’economia cinese. I paesi dell’area però, anche quelli naturaliter vicini a Nuova Dehli, preferiscono ancora Pechino e ciò è esemplificativo dell’enorme debolezza politica indiana. Un limite estero come interno. Ogni legislazione del governo di Nuova Dehli sul contenimento dell’inquinamento idrico è stata bloccata dagli interessi degli investimenti industriali e dal rischio di bloccare la speculazione interna ed estera a favore di paesi con maglie legislative più ampie. Mai come nel caso indiano si avverte uno scambio diretto tra qualità della vita e crescita economica. L’urbanizzazione selvaggia, l’industrializzazione, l’agricoltura sempre più intensiva per star dietro alla crescita demografica: tutti elementi pagati a peso d’oro – o meglio, a peso d’acqua. Una politica che però si scontrerà, temiamo presto, con enormi perdite umane: l’India appare così, nell’epoca del too big to fail, un paese che oggi è too big to win.