Sembra un perfido gioco. Nel giro di ventiquattrore, il destino ha fatto calare sul tappeto della nostra vita due tristi carte di morte.
A Milano se ne è andato Enzo Jannacci, poeta delle periferie meneghine, dei dimenticati. A Roma è scomparso Franco Califano, poeta del border line e degli amori impossibili. Enzo il Milanese e Franco, il Califfo Romano, accomunati da un’uscita di scena quasi simultanea.
Che gran personaggio il Califfo. Un duro dal cuore tenero. Un po’ bandito (non pirata) e un po’ romantico. Grande musicista. Grande paroliere. Grande interprete. Voce roca. Ma voce melodiosa, intonata nelle sue (volutissime) stonature. Uno che se la cerca sempre. E la trova. Uno che passa i guai. E infatti piace alle donne. Ah, le donne. Ci si è rovinato per le donne. Uno che non vorrebbe invecchiare. E invece invecchia bene. Con un naso che nemmeno un pugile si augurerebbe. Ma bello come gli attori belli dei film. Spiritoso. Intelligentissimo e modesto. Forse un po’ pazzo. Simpatico da fare invidia.
Franco è stato l’ultimo vero “bullo” di questa capitale. Quelli che tiravano fuori i coltelli per dimostrare che la vita va giocata sempre. Simbolo di quell’altra Roma, un po’ guascona, un po’ malandrina, ma tutto sommato perbene, che non piace a quelli troppo perbene. Ma Franco è stato soprattutto un grande artista. Come ce ne sono stati pochi e come ce ne saranno sempre meno. Con quella sua voce profonda. Con quella sua faccia da lenza. Con quel suo modo popolare di sfottere le buone maniere dei signori. Rimanendo, lui, un vero gran signore. Ciao Calì. Adesso che non ci sei più, tutto il resto è davvero noia.