Arrivando a Santa Clara, centro dell’isola ed epicentro di rivoluzione, la selvaggia desolazione del paesaggio si stempera nella pietra. Abbandonata una scalcagnata autostrada, dove le buche fanno sobbalzare l’auto come in un rodeo, il mausoleo dedicato a Che Guevara si staglia rude e silenzioso, ad ospitare le spoglie del Comandante e di ventinove guerriglieri che lo seguirono nell’ultima avventura in Bolivia, dove il rivoluzionario argentino trovò la morte a cinquant’anni da oggi, il 9 ottobre del 1967. Pietra e bronzo, bassorilievi e statue, episodi della vita del Che e le sue parole di commiato nella celebre lettera lasciata a Fidel Castro, quando il medico prestato alla guerriglia decise di abbandonare allori e poltrone per esportare la rivoluzione in Sudamerica perché “otras tierras del mundo reclaman el concurso de mis modestos esfuerzos”. Solo rettangoli e quadrati, avvolti nel silenzio, come a scolpire plasticamente l’idea di una geometrica volontà che si è fatta mito.
Una leggenda buona per una t-shirt, per quanti si sono appuntati la responsabilità di un esempio come se fosse una medaglietta rigorosamente cool, da sfoggiare per nobilitare, nascondendole, le miserie di tradimenti ideali e di compromessi fin troppo pratici. Una effige finita negli scaffali polverosi di una sinistra che davanti alle contraddizioni del presente si è ritrovata dalla parte della conservazione, che fa da guardia bianca all’unico imperialismo trionfante, il mondialismo sradicante. I giovani neanche usano più il poster o la maglietta con la celebre foto del Comandante scattata da Alberto Korda. E come potrebbero farlo senza arrossire, di vergogna e non di socialismo, riascoltando parte del discorso che Guevara tenne dinanzi alle Nazioni Unite, nel dicembre del 1964? “Cuba non riconosce il diritto degli Stati Uniti né di nessuno al mondo a determinare che tipo di armi possa avere dentro le proprie frontiere – spiegò il Che durante un’assemblea dell’Onu -. In questo senso accetteremo solo accordi multilaterali con uguali obblighi per tutte le parti. Come ha detto Fidel Castro, finché il concetto di sovranità esiste come prerogativa delle nazioni e dei popoli indipendenti e come diritto di tutti i popoli, noi non accetteremo l’esclusione del nostro popolo da questo diritto”.
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Frontiere, sovranità. Parole che oggi vengono masticate solo “impresentabili populisti”, o che possono riecheggiare in qualche discorso del “terribile dittatore” siriano Bashar al Assad. E che son bestemmie ed eresie per una sinistra del costume rimasta senz’abito alla festa della rivoluzione, nuda dinanzi all’oscenità di un tradimento epocale già insito nelle premesse ideologiche, umane e storiche che l’animavano. E come potrebbero, gli ex cultori della leggenda guevariana che hanno riposto in armadio t-shirt e sogni accucciandosi al calduccio del potere, sentire i brividi sulla propria pelle quando il Comandante, dinanzi al mondo, ricorda che l’unico proclama da contrapporre all’arroganza del mondialismo è “Patria o muerte”?
C’è invece un’altra storia, quella della fascinazione della destra radicale e della “fascisteria” italiana per il mito di Guevara. Un amore a distanza che contagiò e continua a contagiare tanti, anche a distanza dopo cinquant’anni, raccontato nel bel libro di Mario La Ferla “L’altro Che. Ernesto Guevara mito e simbolo della destra militante”: dai primissimi omaggi che arrivarono dal Bagaglino di Pingitore e dal “ragazzo di Salò”, Adriano Bolzoni, fino alle conferenze organizzate nel recente passato da CasaPound con un titolo emblematico, che richiama il testo di una canzone dei Buena Vista Social Club: “Aprendimos a quererte”.
Chi non aveva bisogno di imparare ad amarlo era un ribelle come Jean Cau, che ha dedicato alla figura del rivoluzionario argentino un libro, “Una passione per Che Guevara”, ch’è una gemma rara per chi cerca la bellezza nel mondo senza avvertire il bisogno di piegarla a esigenze di bottega. Un testo scritto dall’ex segretario particolare di Sartre, che intanto aveva abbandonato i salotti della gauche caviar interrogandosi sulla crisi dell’Europa, per descrivere «l’implacabile dolcezza dei fanatismi» e “suicidare” una parte di sé e delle proprie illusioni, visto che «ci sono mille modi di suicidarsi. Balzac scelse il caffè, Verlaine l’assenzio, Rimbaud l’Etiopia, l’Occidente la democrazia, e Guevara la giungla». Facendo i conti con la propria ammirazione dissonante in tempo di unisoni, l’intellettuale francese spiega le ragioni della sua passione. «Perché bisognava che ti liquidassi, in me, in un libro o non so dove. Perché non sono le tue spiegazioni – e Dio sa se le hai scritte, commentate, ripetute continuamente! – che mi interessano, ma ciò che la passione distilla da un uomo fino a una solitudine dove eccolo, unico e irragionevole, di fronte al suo coraggio e alla sua morte – si legge in Une passion pour Che Guevara -. Sono, queste, ragioni sufficienti di “fascino”? Ma, insomma, io non ho una ragione, l’ho detto, ed è come un movimento; e perché dovrei preoccuparmi dello slancio che me lo imprime? Perché fra me e te, Che, non dovrebbe esserci un segreto che coltiveremmo di nascosto, entrambi e come due bambini? E tutto è perfetto: essendo morto, non mi contraddici. Mi sento a mio agio accanto a un fantasma».
Senza la paura di mischiarsi al coro degli «elogi mentiti e dei battimani convenzionali» – come scriveva quel Berto Ricci il cui sacrificio, in un mondo normale, nulla avrebbe da invidiare a quello del Che – Jean Cau racconta un amore nascosto e scomodo, difficile da comprendere in tempi in cui l’ideologia imponeva modelli e giudizi. E invece l’empatia tra il ribelle francese e il rivoluzionario argentino, sottolineata dall’uso della seconda persona che restituisce un dialogo con chi «non poteva vivere che con l’assenza da questo mondo», nasce su un piano pre-politico, estetico e quindi etico. La distanza con le idee, le illusioni e la visione del mondo del “cristiano” Guevara – e le pagine in cui Cau paragona il corpo disteso del guerrigliero al Cristo del Mantegna sono tra le più belle del libro – non impediscono di ammirarne purezza e grandezza. «Uomo di una fede che non è la mia, ma, da un lato, mi importa lo stile di una vita e di una morte (…) Guevara muore per un’idea o per l’idea che questa morte gli darà di se stesso? E’ un problema. Banalità: ci si batte con gli altri e si muore soli. E ci sono tombe, quali che siano stati il combattimento dei caduti e il campo dove caddero, intorno alle quali bisogna camminare a passo di colombe. La tua fede, Che, non è la mia, ma tu passi e il tuo portamento mi afferra. Mi tolgo il cappello e ti saluto. Ciò non è senza importanza. (…). La tua fede e la tua lotta non sono le mie. La tua morte, sì».
Resta lo stile, come bussola per orientarsi tra le miserie del mondo. Dinanzi al quale le parole impallidiscono e si staglia l’esempio, al di là di una t-shirt o di un poster in camera. Osservando la litografia di Dürer, a cui sempre Cau ha dedicato un imperdibile livre de chevet come “Il cavaliere la morte e il diavolo”, davanti a un uomo che avanza verso il proprio destino, sfidando il diavolo e beffando la morte, non si può che rendergli onore. «Egli è di coloro che mai indietreggiano. Un solo passo indietro, ed è perduto. E’ condannato ad avanzare ma questa sentenza non è mai stata pronunciata. Egli è il cavaliere e molto naturalmente, avanza. Questo portamento naturale si chiama nobiltà».