Alla fine è arrivata anche la raccolta di figurine su Papa Francesco. A confezionarla è la Gedis Edicola. Una collezione di quattrocento scatti che ripercorrono la vita di Jorge Bergoglio. Dopo gli eroi del calcio, arriva il campione della Fede. Proprio dall’Argentina, la patria della “mano de Dios” di maradoniana memoria. Ma basteranno due domeniche da Papa per canonizzare un pontefice regnante? Con tutta la simpatia per il Santo Padre, la risposta è no. Davanti a questo clima assai euforico, qualcosa rischia di sfuggire di mano. Nel giro di poco tempo siamo passati infatti dallo sgomento, senza alcun lutto da elaborare, per la rinuncia di Papa Benedetto il Teologo; alla giusta (e misteriosa) esultanza per quel Gaudium Magnum che ha annunciato al globo Francesco, il primo papa gesuita della storia.
La sbornia però non è ancora passata. Sta durando troppo, sembriamo intossicati. Urge immediatamente una cura. Il suo nome è la Croce. Che, attenzione però, essa già è presente nel vissuto ecclesiale e nella storia umana. Ma sarà la ciclicità della liturgia a ricordarcela: il Giovedì e il Venerdì santo sono alle porte. Lasciamo stare per ora il sabato e la domenica di risurrezione. Il dramma da meditare con urgenza è su quel processo sommario consumato ai danni dell’innocente Gesù, ma anche quella condanna a morte velocemente eseguita sul Golgota. Due eventi che ci rivelano una verità paradossale: il mondo odia Dio. Non lo tollera. Anzi, lo vuole estirpare come un tumore dal proprio orizzonte programmatico. Il motivo di questa ostilità radicale è lo stesso nazareno a spiegarla: «Il mondo odia me perché di esso attesto che le sue opere sono cattive (Gv 7,7)». Sulla scorta di questo versetto, la sapienza cristiana ha compreso il criterio: «Se il tuo nemico ti esalta, preoccupati». E di rimando anche: «Se ti si scaglia contro, vuol dire che sei sulla giusta strada».
Attenzione, qui non c’è alcun ammonimento a Papa Francesco. Semmai c’è una critica, anche violenta, verso quell’ermeneutica dell’imbecillità che in questi giorni sta dilagando come uno tsunami. Sia nel recinto cristiano, che fuori. Basta guardare la video-lettera a Papa Francesco pubblicata sul sito di La Repubblica a firma dell’ateo Eugenio Scalfari. Bisogna stare attenti a quale sia la sua particolare teologia da insegnare: il Gesù predicato dal guru debenedettiano è più prossimo all’eresia ariana che al Cristo di Pietro. Con Ratzinger non avrebbe neanche avuto il coraggio di pensare un tale affondo. C’è da pensare che Scalfari ed altri abbiano visto il lui un pontefice addomesticabile? Temiamo proprio di sì.
Poi c’è il caso di Magdi (ex) Cristiano Allam. Il grande convertito che lascia la Chiesa perché non si riconosce nel nuovo pontefice. Una scelta che la dice assai lunga su quale idea di cattolicità abbia sempre avuto in testa. Allam lasciò l’Islam perché politicizzato e violento, sperando di trovare nel cattolicesimo un prodotto altrettanto radicale e ideologizzato. Con questo non si vuol negare che la sua presa di posizione sul bacio al Corano di Giovanni Paolo II sia insensata. Anzi, la sua è una critica fin troppo pertinente. La sua vicenda però rivela un fenomenologia assai moderna e pop in cui lui stesso è incappato: l’idolatria del Papa.
Un fenomeno esploso con Wojtyla e che ancora non è stato totalmente domato. Ma che anzi ritorna oggi prepotentemente a galla. Il vescovo di Roma non può essere il Che Guevara dei cattolici. Non è chiamato a vendere né gadget, né libri e né magliette. Certo è che il Papato oggi si deve confrontare con i dettami della mediaticità e con una sovraesposizione che non ha precedenti. Un pontefice però non può essere annunciatore di sé stesso. Stiano attenti a capire questo dettaglio soprattutto gli spettatori, la gente comune. Il cristianesimo non è uno show. Con il Beato Giovanni Paolo II si è corso questo rischio. Prova ne è la necessità di pubblicare nel 2000 la nota Dominus Iesus a firma della Congregazione per la dottrina della fede sull’unicità salvifica di Cristo. Tradotto: l’A-B-C del cristianesimo. Se il Vaticano ha dovuto precisare un elemento così essenziale è perché qualcosa d’importante stava, e sta, sicuramente venendo meno.
Bisogna fare i conti poi con l’umiltà. E già. Un’arma a doppio taglio che si accompagna poi all’affilata arroganza della “retorica dell’umiltà”. Massimo Fini, il non cristiano che non alcuna pretesa di spiegare Gesù ai credenti, ci ha visto bene. Questa prima fase del pontificato di Francesco è vittima di questa lettura. Ogni suo gesto è letto fino allo sfinimento sotto questa lente. È come se la Chiesa fosse contaminata da un certo grillismo banalizzante. Incapace però a distinguere cosa sia essenziale nella fede e cosa non lo sia. Cosa sia la lotta agli sprechi e quale sia la “povertà in Spirito” a cui Cristo sottintendeva. E soprattutto cosa sia davvero umiltà. La risposta su cosa si debba realmente intendere con questa virtù ce l’ha dà però lo stesso Francesco in occasione dell’incontro tragico (lo è stato davvero, ma in senso greco) tra i due pontefici. Nel regalare al suo predecessore l’icona di Maria dell’Umiltà, Francesco ha riferito: «In questi anni lei ci ha insegnato cosa essa sia davvero». Una lettura autorevole che c’impone di rivedere meglio cosa sia dentro questa parola. Ma anche cosa vuol dire essere Papa e Uomo assieme.