“Perché è il “tesoretto” stipato nelle auto su cui Mussolini, alcuni gerarchi e alcuni ministri di Salò cercano di allontanarsi dall’insurrezione partigiana nei giorni cruciali di fine aprile 1945. La dizione abituale è “l’oro di Dongo”, dal luogo in cui la colonna fu fermata e perquisita; “oro dei vinti” si riferisce invece alla condizione dell’ultimo fascismo, giunto al crepuscolo”. Risponde Gianni Oliva alla nostra domanda sul perché abbia intitolato la sua ultima fatica “L’oro dei vinti”.
A chi l’oro? Può sembrare un quesito banale, il nostro: un autore sceglie il titolo che più gli aggrada, o che meglio sintetizzi il suo lavoro. Ma dopo aver letto e ascoltato per decenni testimonianze sul favoloso “Oro di Mussolini”, viene spontaneo chiedersi: “ma se era del Duce, perché gli eredi non sono stati risarciti?”. I milioni di lire (del 1945), i gioielli e i titoli sequestrati alla Colonna Mussolini, furono sottratti al dittatore ancora prima che il mitra francese di Valerio sparasse la sua raffica. Oliva ricostruisce parte del percorso del denaro, nei momenti immediatamente successivi alla fine della guerra:
“secondo i servizi segreti americani, oltre 8 miliardi di lire del tempo. Cifre ipotetiche comunque: la maggior parte del tesoro è stata presa da privati che, nella confusione di fine guerra, hanno potuto giovarsi di tanta fortuna inattesa”.
Il tragitto Persone che si arricchiscono approfittando della confusione e del caos generale: ci troviamo, infatti, nelle giornate che seguono la resa tedesca in Italia, il discioglimento delle unità repubblicane, le prime azioni di vendetta ai danni di civili e militari legati (o sospettati di esserlo) alla RSI. E’ la resa dei conti. A Como, invece, di conti se ne fanno altri…
Ancora Oliva.
“La parte del tesoro inventariata è stata trasferita alla Federazione comunista di Como in due viaggi successivi, con l’impegno di trasmetterla alle future nuove istituzioni nazionali. In realtà, se ne perdono le tracce: dal processo fatto a Padova nel 1957 emerge che il denaro è servito per la smobilitazione delle formazioni garibaldine; secondo altre testimonianze, per sostenere l’organizzazione di un partito che in quell’ epoca guardava ad una prospettiva rivoluzionaria; secondo altri ancora per investimenti edilizi. Certo è che è rimasto nelle mani del Pci”.
Gianna e Neri Fortuna inattesa sia per Togliatti sia per i comaschi che hanno potuto trattenersi qualcosa. Ma non tutti sono d’accordo sull’appropriazione (indebita): Giuseppina Tuissi, la comapagna Gianna e Luigi Canali (Capitano Neri), capo di stato maggiore della 52^ Brigata “Garibaldi”, per quell’oro hanno sofferto pene da girone dantesco. A febbraio, traditi da un compagno, sono stati condannati a morte dal tribunale clandestino del Pci e nell’aprile ’45 sono a Como a loro rischio e pericolo. L’accusa di collaborazione col nemico e l’idea che il denaro della RSI dovesse finire nelle casse dello Stato, fanno dei due facili bersagli per chi vuol farli tacere. Neri sparisce il 7 maggio 1945, un giorno prima della cessazione delle ostilità in Europa. Concidenza? Forse o forse no: le azioni (comprese le esecuzione) commesse prima della capitolazione del Terzo Reich, vengono considerate dalla giustizia internazionale come legittimo atto di guerra. Gianna, invece, muore il 22 giugno 1945, mentre cerca di ricostruire gli ultimi istanti di vita del Comandante. Secondo Oliva “erano due comunisti non ortodossi e, soprattutto, erano convinti che quella somma dovesse andare allo Stato Italiano. Militanti “anomali” e testimoni scomodi. Per questi sono stati soppressi”.
Reazioni Lo storico ammette chela sua ricerca abbia sviluppato un certo interesse sull’argomento trattato. E racconta, anche, un singolare aneddoto: “quando ho presentato il volume a Dongo, nella stessa stanza del Municipio dove fu prigioniero Mussolini, la domanda preliminare è stata: “professore, ma fa anche i nomi?” Ho rassicurato tutti: che molti privati abbiamo approfittato di quella fortuna è ovvio, ma dal punto di vista storico”.