Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse… Ma l’ignoranza non si coglie con lo sguardo, l’età sì. I giovani attraggono, i vecchi ripugnano anche se – come i personaggi di Youth di Paolo Sorrentino – sono celebrità: un direttore d’orchestra a riposo (Michael Caine) e un regista cinematografico agli sgoccioli (Harvey Keitel). Così sul manifesto del film (uno dei tre italo-francesi in concorso al Festival di Cannes), risaltano i glutei levigati di Madalina Ghenea, poco più di una comparsa, in contrasto con i loro volti segnati. Tutti e tre sono parzialmente immersi nella piscina di un albergo di montagna dei Grigioni. E’ inizio maggio. La clientela è ancora rara, ma basta per impedire al solitario direttore d’orchestra di sentirsi solo come vorrebbe. E’ venuto qui con la figlia (Rachel Weisz, notevole Ipazia nel film Agorà) e il consuocero, il regista. Benché legga il più repubblicano dei quotidiani britannici, The Guardian, gli si presenta un messo della regina Elisabetta, col pressante invito a tornare a dirigere per il principe Filippo, che lo apprezza anche come compositore…
L’alter ego del direttore d’orchestra britannico rinunciatario e compassato è il regista cinematografico americano, ostinato e nostalgico di successi lontani: è un po’ Robert Altman o Bob Fosse nell’aspetto, un po’ Brian De Palma, Blake Edwards, Stanley Kubrick e una dozzina d’altri per i personaggi dei loro film evocati. A confronto con loro, i giovani sceneggiatori riuniti nell’albergo svizzero per inventare una nuova messa in scena appaiono proprio esigui. Sorrentino sa che per il cinema – per le patate, per l’aristocrazia e anche per la borghesia, ormai – il meglio è sottoterra.
Insomma, i due personaggi principali di Youth sono la versione sdoppiata (ed export) del personaggio di Jep Gambardella, raffigurazione del reale Gioacchino del Balzo, che Toni Servillo ha interpretato nella Grande bellezza. Del resto anche qui, come nel film che ha avuto un giusto Oscar, non si vedono né computer, né telefonini. Siamo dunque ancora negli anni ’80? No, siamo nel presente. Ma almeno al cinema è bello illudersi che ci sia un angolo più simile a quello nel quale si è cresciuti che a quello nel quali ci si è affermati.
Sorrentino non è necessariamente un nostalgico. Lo ricorda il personaggio di Miss Universo (la citata Ghenea), scelta forse per la somiglianza con Freida Pinto (già Miss India), l’attrice di Millionaire, che mette in riga l’altezzoso divo hollywoodiano che si sente al di sopra di Hollywood (una sorta di Johnny Depp), quando lui le getta in faccia che lei, tanto bella, può esser solo cretina. E’ lei la ragione per la quale questo film, che avrebbe potuto intitolarsi Vecchiaia, s’intitola Giovinezza (cioè Youth). Ma dov’è qui il “paradiso di bellezza”? Belli gli ambienti, bello il paesaggio, belli gli abiti, ma il paradiso è anche uno stato d’animo, e qui il barometro volge al brutto stabile.
Nel caso degli artisti ideati da Sorrentino, poi, il problema è meno la vecchiaia che il sentirsi ancor giovani essendo vecchi. In sostanza sentirsi sempre prestanti ed esser visti come rimbambiti da persone che non hanno nulla, salvo il tempo davanti. Ogni decadenza propone questo confronto. La capacità di Sorrentino, classe 1970, è di cogliere l’ineluttabile senza diventare meccanico. I suoi personaggi principali non sono, fin dall’Uomo in più (Mostra di Venezia, 2001), prevedibili.
Le reazioni dei critici ai film di Sorrentino, quindi anche a Youth, sono più identitarie, quindi ideologiche, del solito. Il suo talento è stato accolto lungamente male, se non malissimo, dal filone egemone della critica italiana e francese (leggete le stroncature, proprio dal Festival di Cannes, de Le conseguenze dell’amore e de L’amico di famiglia apparse su alcuni importanti quotidiani). Non capivano nulla quei critici? O capivano soprattutto che Sorrentino non era dei loro, insomma non si inchinava al loro potere? Per Sorrentino ha funzionato al contrario il rituale che ha accolto il cinema di Nanni Moretti, considerato un eletto invece fin dai primi “corti”. Mia madre, apparso in Italia un mese prima di Youth, ma anch’esso ora in concorso a Cannes, ha confermato che i giornalisti sono pro o contro Moretti, non pro o contro questo o quest’altro suo film. Si giudica la persona e, a seconda di come la si classifica, se ne approva o condanna il lavoro. Moretti è l’alfiere non violento del post-’68? E’ il revisionista borghese del comunismo? E’ l’intellettuale altezzoso? E lo splendido quarantenne (autodefinizione)? E’ padre e sposo esemplare? O è padre così così e marito infedele? Infine è il meno splendido sessantenne, ora autore capace anche di auto-critica? Quest’ultimo lato ancora sfugge, sebbene sia il più interessante di una figura comunque di valore.
Questi limiti affiorano anche nel valutare i singoli lavori di Sorrentino. Emerge da parte di certi critici un certo gusto nel notare le sue fonti d’ispirazione, come dire che copia, ma la stessa cultura – per un altro autore – sarebbe definita “profondità di sguardo”. La formidabile collaborazione con il direttore della fotografia, Luca Bigazzi, passa in second’ordine, come se il cinema non fosse, innanzitutto, immagini. Il rilancio di una coppia di vecchi, immensi attori come Caine e Keitel, è classificato più o meno come “un usato sicuro”, se è opera di Sorrentino, mentre come “geniale”, se lo fa Michael Haneke con Jean-Trintignant e Emmanuelle Riva in un film, Amour, che vinse proprio a Cannes nel 2012 (e l’Oscar nel 2013). Del resto anche Haneke, ai tempi di Funny Game (Festival di Cannes, 1999), pareva ad alcuni – incluso Nanni Moretti, allora giurato – un devoto dell’iper-violenza…