Il fuoriclasse brasiliano Léo Júnior è ritornato a Torino. Il tempo passa veloce, ma lui rimane sempre nel cuore di chi lo ha visto giocare, della torcida della Seleção. La sua, quella anche di Sócrates e Zico tanto per intenderci, è stata una delle Nazionali più forti di sempre, ma alla fine il Mondiale dell’82 lo vinse l’Italia di Bearzot.
Non ha più tutti quei capelli che gli valsero il nomignolo di O Capacete, semplicemente “il casco”. “Ma a quel tempo andavano di moda così, c’era il black power che imperava… oggi ne ho di meno, e quelli che ho sono bianchi”. Léo Júnior, ora sessantunenne, ha la stessa energia di sempre, la stessa limpidezza di sguardo e di giudizio.
È tornato a Torino ed è stato un autentico bagno di folla, si è rimesso in moto il cuore granata, con il sentimento e la forza di un tempo indimenticabile.
Lo abbiamo incontrato in quello che rimane del mitico “Filadelfia”, lo stadio del Grande Torino che da troppo tempo attende di essere ricostruito.
“Il Filadelfia? Questo stadio è l’anima del Torino, c’è dentro tutta la sua storia. Allora il contatto con i tifosi del Toro era molto stretto, in tutti i sensi. Ti criticavano ma ti davano anche delle dritte. Io qui mi sono allenato e lo posso testimoniare”.
Non si è più staccato dall’Italia, il mitico Léo. “Ho vissuto un periodo fantastico, come giocatore e come uomo”, e lo sanno bene i tanti nostalgici di quel Toro fiero e tosto, e di quel Pescara che con le idee di Galeone e quel cuore brasiliano entusiasmava l’Adriatico. Lui che in Brasile aveva vinto tutto, con il Flamengo del Galinho, non ebbe esitazioni a scendere nell’arena e battersi per altri traguardi.
“Non ne ho mai fatto un problema. È stato fantastico ad esempio riportare il Torino in Uefa e conquistare il secondo posto in campionato, dopo aver vinto il derby con un colpo di testa di Serena all’ultimo minuto”, ed era stato lui a dipingere un calcio d’angolo fino alla testa del centravanti veneto, sotto la Maratona impazzita.
E ancora: “Come anche non dimenticherò mai la felicità per aver salvato il Pescara, per me era come vincere lo scudetto”. Uomo di parola e di fede, di sentimenti e amicizie vere come le tante che ha lasciato in Italia: “Almeno una volta a settimana mi sento con gli amici, da Dossena a Giampiero Gasperini”, sì, il tecnico del Genoa che a Pescara gli lasciò la sua fascia di capitano, gesto di cuore e di rispetto.
“E sono doppiamente legato a Torino, perché mia figlia Juliana è nata all’ospedale Sant’Anna di Torino”.
Il calore dei tifosi del Toro non è mai cambiato, il loro attaccamento è lo stesso, anche se certamente il Torino di 30 ani fa era diverso: “Ho rivisto in questo Toro lo spirito degli anni ‘80. Ai miei tempi però c’era maggiore attenzione verso il settore giovanile, da dove uscivano ragazzi promettenti e andavano in prima squadra. Un po’ quello che sta facendo il Flamengo negli ultimi anni. Io, Zico e molti altri siamo usciti dalle giovanili, lo slogan era ‘I fuoriclasse li facciamo in casa’ e adesso stanno ritrovando quella abitudine”.
La storia è proprio questa e forse da qui dovrebbe ripartire il Toro che ripensa in grande, che ha riscoperto l’amore della sua gente grazie a Giampiero Ventura e ai suoi ragazzi. E grazie alla società che sta crescendo anche in ambizione. “Consigliai al Toro un giovane Kakà, aveva 17 anni. Non mi fu dato ascolto però…”.
In Brasile si fanno sempre i paragoni. Sa da solo quanto sia difficile emulare uno come lui, protagonista di una delle Seleçao più ammirate, quella del 1982, così amata, disperatamente, proprio perché non vinse. “È così, ed è un paradosso del calcio – ragiona Léo -. In un mondo in cui il più bravo è sempre quello che vince, noi siamo ancora ricordati come attori di una delle squadre nazionali migliori, quasi come quella del 1970”. E se lo spiega, Júnior? “Beh, perché forse la qualità dei giocatori era davvero ottima”. E allora onore a Leo Junior, a Zico, a Sócrates, Falcão, Cerezo ed Eder, a quell’imperiale Brasile di Telê Santana. E a chi riuscì a batterlo, ovviamente, in quel fantastico luglio del 1982.
Léo segnò una rete spettacolare contro l’Argentina ma contribuì pure in maniera decisiva all’eliminazione della sua squadra nel match contro l’Italia di Bearzot, tenendo in gioco Paolo Rossi in occasione del definitivo 3-2. “Se, se, se… ma con i se non si va da nessuna parte. È stato così. Punto e basta”.
“Una sensazione diversa da qualunque altra, una cosa unica, eccezionale in tutti i sensi. La Sindone non l’avevo mai visto”.
Poi il programma preparato da Domenico Beccaria del Museo del Grande Torino e della leggenda Granata, che ha anche allestito una mostra su di lui, lo ha nuovamente riconsegnato ai supporters granata, su e giù per il Piemonte.
Una continua standing ovation per il Maestro, che ha sempre saputo farsi apprezzare pure fuori dal campo per le sue doti canore e per le sue doti di ballerino di samba, riuscendo a trasmettere quell’allegria tipica brasiliana.
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Ah Léo, un’ultima domanda: la finale di Champions?: “In due partite sarebbe molto più favorito il Barcellona, in una sfida singola può capitare di tutto”.
@MarioBocchio